Il grande scandalo dell’occultamento del problema dell’alimentazione nell’agenda della salvaguardia della natura: tra vecchie e nuove generazioni.
Il grido d’allarme sui cambiamenti climatici, sul degrado ambientale, sulla necessità di un cambiamento di rotta rispetto ad un intero modello di sviluppo risuona sempre più forte. Se molti degli appelli degli scienziati da anni cadono nel vuoto, grande risonanza ha invece avuto quello tanto più comprensibile e accattivante della giovanissima Greta Thunberg, che, gridando al mondo che la nostra casa è in fiamme, richiama i “grandi” alle loro responsabilità. Le cose che dice non sono certo nuove: è innegabile che le sue parole assumono una semantica nuova e potente soprattutto grazie al “personaggio”: il viso corrucciato, l’aspetto infantile affondato nelle felpe troppo grandi, le lunghissime trecce da folletto da saga nordica, movimentano il suo linguaggio diretto e arrabbiato che stride con quello di chi parla in politichese, tra mediazioni e vergognosi compromessi.
Risultato è che la sua presenza sia stata incredibilmente contesa nelle occasioni più prestigiose: è ospite alla COP24, al vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Katowice in Polonia; al Forum Economico Mondiale di Davos; al Parlamento Europeo; parla con Papa Francesco; e dovunque in giro per il mondo lancia impietosi atti di accusa contro i potenti, che continuano a reclamarla, pur sapendo che li insulterà, e a coccolarla, forse convinti che sia strategicamente vincente e più economico farsi amico il nemico: difficile altrimenti spiegarsi lo spettacolo surreale della gogna a cui molti politici sembrano sottostare con masochistico piacere, quando applaudono le sue parole, commossi quasi fino alle lacrime, tanto da sollevare più di un dubbio che forse non capiscono che proprio a loro le accuse sono dirette. O forse pensano che una così, pericolosa non lo è di sicuro.
Basta e avanza: il mondo dei ragazzi sembra trovare un’imprevista unità: e si formano movimenti quali FFF, Fridays For Future, e XR, Exctintion Rebellion (che vanta tra i suoi attivisti un’altra donna scomoda, Carola Rackete), che parlano di rispetto per la terra, la natura, l’ambiente. I ragazzi scendono in piazza: sono corde sensibili ad essere toccate, il futuro è di tutti, la natura chiama e il suo è un appello disperato a cui si risponde con il cuore ancora prima che con la voce. E i giovani si fanno attori sul palcoscenico troppo spesso disertato da quelli che contano.
Certo sono tanti anche i suoi detrattori, i quali, secondo una tecnica particolarmente in voga, non avendo grandi argomenti per contrastare le sue idee, contrastano lei. La ridicolizzano, la insultano, la chiamano Gretina, insinuano che la spontaneità esibita sia in realtà la maschera di una sudditanza prezzolata ad altri poteri forti. Tant’è: il Time la proclama Persona dell’Anno 2019 e le dedica la sua prestigiosa copertina: lei su uno spuntone di roccia, spruzzata dalle onde, sguardo dritto e aperto sul futuro, sola, ad affrontare la vita e le sue brutture, a muso duro.
Nel vasto movimento in atto, ancora in gran parte da inquadrare e decodificare, c’è un elemento che resta però oscurato: Greta è vegana. Per inciso, lo è anche Carola.
Il suo impegno per la salvaguardia della terra coincide con una scelta immediatamente attuabile in privato, qui e ora, indipendentemente dalle leggi inique di un mondo iniquo. Non consumare alcun prodotto che derivi dallo sfruttamento e dalla sofferenza degli altri animali è in primo luogo scelta etica, ma anche elemento imprescindibile del rispetto della natura e dei suoi abitanti, umani e nonumani. Per altro la connessione con la situazione climatica è scientificamente indiscutibile: gli allevamenti intensivi sono responsabili dell’emissione di enormi quantità di gas serra e della deforestazione necessaria per destinare nuovi spazi agli allevamenti e alle colture necessarie per foraggiare il bestiame.
Tra i tanti che da tempo ne fanno denunce appassionate, si trovano testimonianze di particolare peso: Greenpeace, associazione ambientalista certo non in odore di animalismo, sulla scorta dei dati FAO da anni afferma senza mezzi termini che le conseguenze peggiori della crisi climatica in corso non possono essere evitate se, a livello politico, si continua a difendere la produzione intensiva di carne e latticini, e non ci si decide a favorire la transizione verde, invece di limitarsi a citarla. Sostiene conseguentemente che è fondamentale dirigere l’alimentazione verso un minor consumo di prodotti animali, argomento davvero trascurato nelle discussioni sul cambiamento climatico.
Il premio Nobel per la pace 2007, l’indiano Rajendra Pachauri, direttore dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha costantemente invitato ad una riduzione del consumo di carne quale scelta personale decisiva per contribuire a ridurre le emissioni di gas serra.
Nicholas Stern, presidente del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment presso la London School of Economics, in un’intervista al Times ha dichiarato: La carne determina uno spreco di acqua e produce elevate emissioni di gas serra. Essa esercita una enorme pressione sulle risorse del pianeta. Una dieta vegetariana è meglio. […] Ritengo sia importante che la gente pensi a cosa sta facendo e questo include cosa sta mangiando. […] Dovranno incominciare a riflettere anche sulle emissioni prodotte da quello che si mangia.
Rob Bailey, per conto di Ghatham House, Centro Studi Britannico specializzato in analisi geopolitiche, già nel 2015 denunciava e accusava: Prevenire un catastrofico riscaldamento globale dipende dalla volontà di affrontare il tema del consumo di carne e latticini, ma il mondo sta facendo molto poco. Parecchio è stato fatto sulla deforestazione e il trasporto, ma c’è un divario enorme per quanto riguarda il settore zootecnico… Rimane una profonda riluttanza a impegnarsi in merito, dato che i governi pensano non sia di loro competenza… dire alle persone cosa dovrebbero mangiare.
C’è di che rimanere basiti davanti all’indifferenza con cui queste dichiarazioni sono state accolte a livello mondiale.
Ma c’è dell’altro: tutte queste (non) consapevolezze sono state enormemente amplificate dalla tragedia dell’attuale pandemia, in cui gli allevamenti intensivi e la nostra relazione distorta con gli altri animali giocano un ruolo essenziale anche nel provocare e diffondere infezioni virali, come il Covid-19 ha portato prepotentemente alla ribalta.
Abbiamo imparato che il virus che può albergare senza conseguenze nei pipistrelli, può diventare devastante se trasferito direttamente o indirettamente nell’uomo: e il passaggio avviene in conseguenza della deportazione degli animali in luoghi che non sono i loro, dove vivono in condizioni spaventose e uccisi in modo crudelissimo, come per esempio nei wet market cinesi. Per altro il fenomeno è tutt’altro che nuovo, dal momento che, per restare a tempi recentissimi, porzioni di mondo hanno dovuto affrontare nel 2003 la Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome) e nel 2012 la Mers (Middle-East Respiratory Syndrome ). L’imputabilità dei pipistrelli viene ogni volta risolta con uccisioni di massa in quanto colpevoli del disastro, con contemporanea assoluzione della specie umana, che invece è la vera responsabile, con la deportazione dai loro normali luoghi di vita a spazi urbani, etologicamente disastrosi.
Se queste sono le situazioni spesso ricordate, una pubblicità di poco superiore allo zero viene concessa dai mass media ai casi innumerevoli di epidemie che si originano e si sviluppano sempre più spesso negli allevamenti intensivi di tutto il mondo: morbo della mucca pazza, influenza aviaria, peste suina; nonchè le infezioni connesse all’antibiotico resistenza, conseguente allo sfrenato uso di antibiotici negli allevamenti intensivi, per prevenire o affrontare le infezioni, conseguenti alle situazioni infernali in cui gli animali vengono allevati. Ogni volta l’unico intervento umano è quello di procedere allo sterminio di milioni di individui animali, nel migliore dei casi gasati, ma molto spesso sepolti vivi: tanto per risparmiare tempo e denaro.
E’ conseguente che occuparsi di ambiente, rispetto per la natura, cambiamenti climatici significa occuparsi del nostro rapporto con gli altri animali e quindi della nostra alimentazione, dal momento che noi di animali ne mangiamo qualcosa come 170 miliardi ogni anno.
A fronte di tutto ciò il 21 ottobre scorso il Parlamento Europeo ha confermato il sostegno economico al sistema degli allevamenti intensivi, scartando l’opzione di finanziare le misure ambientali. Da rimanere attoniti a fronte del Green Deal Europeo, annunciato come priorità da Ursula van der Leyen nel momento del suo insediamento come Presidente della Commissione Europea, con l’annuncio di misure atte a rendere la produzione di energia e lo stile di vita più compatibili con le esigenze ambientali, e a trasformare l’Europa in una società giusta e prospera dove le emissioni di gas serra saranno azzerate e la crescita sarà sganciata dall’utilizzo delle risorse naturali.
Parole parole parole: il mondo è organizzato sul dileggio di tutte le evidenze scientifiche: chissenefrega dell’etica, e a questo sembriamo drammaticamente assuefatti, ma anche delle ricadute drammatiche sulla salute delle persone: meglio rimuovere, negare, nascondere. Parliamo d’altro.
Greta Thunberg è vegana, come si è detto, e lo è anche Carola Rackete: in sintonia con la consapevolezza che la lotta al disastro climatico comporta un imprescindibile rimodellamento dello stile di vita di ognuno.
E’ però un dato di fatto che il richiamo alla necessità del veganismo come scelta di coerenza e serietà, non fuoriesca nei discorsi di Greta (Carola non è vista come leader e non è usa ai discorsi programmatici): lo ritiene forse scontato, pleonastico al punto che farlo presente risulterebbe offensivo dell’intelligenza di chi la segue e di chi le si affianca? Forse, visto anche il fatto che i suoi interventi sono essenzialmente accusatori e non contemplano un decalogo dei comportamenti da tenere. Se così è, per quanto arrabbiata sia con il mondo e così poco propensa a guardare gli altri con comprensione ed indulgenza, finisce comunque per peccare di troppo ottimismo nel dare per scontato che tutto sia ovvio, condiviso dai suoi compagni di lotta in nome di quella credibilità, senza la quale il rischio di fotocopiare le politiche parolaie contestate diventa reale.
Di fatto le centinaia di migliaia, forse milioni di giovani scesi nelle piazze di tutto il mondo nel Global Strike For Future del 15 marzo 2019 e nelle altre occasioni minori non hanno certo usato i loro megafoni per dare voce alla necessità che, tra i passi ineludibili verso la salvaguardia dell’ambiente, l’alimentazione vegana sia un must, una scelta fondamentale. Non se ne è sentito proprio parlare al netto di qualche striscione: al riguardo sono molto più che afoni, sono muti: ovviamente non nella loro totalità, ma rispetto agli obiettivi più espliciti dei loro movimenti. Non offre risultati la ricerca on line sui siti di FFF, mentre quella sui siti inglesi di XR consente di prendere atto che il veganismo non è condizione sine qua non dell’adesione al movimento, ma solo una scelta da incoraggiare quale very good start, tanto che nelle occasioni pubbliche viene offerto soprattutto, ma non esclusivamente cibo vegano, dato anche che it’s not all down to individual action: non tutto dipende dall’azione dei singoli.
In sintesi, nulla più che un’opzione consigliabile, che con buona volontà si può andare a scovare anche nella Dichiarazione, che Rebellion Extinction ha messo in rete, in cui si legge che la ribellione di cui si parla è dettata dall’amore “per questa terra, per gli esseri viventi che la popolano”. Ma quindi non mangiarli questi esseri viventi non dovrebbe essere invece un must?
Una forte timidezza avvolge tutta la materia: ipotizzare che non vi sia adeguata consapevolezza della questione non sarebbe solo deludente, ma drammatico, perché testimonierebbe di una ignoranza, incompatibile con l’obiettivo grandioso dei cambiamenti epocali di cui FFF e XR sono paladini, che necessita di competenze oltre che di passione.
Resta allora una spiegazione banale, poco lusinghiera, riferita alla ritrosia a mettersi in gioco in prima persona con modificazioni della proprie abitudini, del proprio stile di vita che, tutto sommato, presenta aspetti più che gradevoli e induce a non allargarsi troppo, rendendo le dichiarazioni troppo vincolanti. Pericolose analogie con quei politici che hanno immesso nel proprio vocabolario svolta verde, green deal, ambiente, questione climatica, e poi legiferano in direzione ostinata e contraria, congelando lo stato delle cose, come già ricordato, almeno per i prossimi sette anni con il loro ignobile sostegno economico agli allevamenti intensivi: morale gattopardesca che spinge a cambiare affinchè nulla cambi.
Nella questione ambientale, come in quella antispecista, esistono aree in cui solo le leggi e la politica possono intervenire e l’unica possibilità a portata di comuni cittadini resta quella, sempre più svuotata di potere, del voto o della protesta più o meno organizzata. E vi sono invece aree in cui ognuno ha la possibilità di agire qui e ora per dare il proprio personale contributo all’obiettivo previsto e magari sbandierato. Fin troppo facile osteggiare le pratiche orride di altri luoghi: mattanza di cani, tormento degli orsi della bile, supplizio dei tori: esprimere la nostra indignazione con uno sdegno sincero designa la nostra appartenenza al mondo dei giusti, senza che questo comporti alcun impegno personale, né modifichi il nostro quotidiano.
La questione cambia però se il nostro stile di vita e le nostre abitudini sono le stesse che contestiamo nelle loro conseguenze finali:
dal momento che, nel mondo occidentale, mangiamo anche tre volte al giorno tutti i giorni, è innegabile l’impatto individuale del consumo di prodotti di origine animale, tangibile nella sua moltiplicazione per il numero delle persone implicate. In ogni caso se la potenza della spinta etica propulsiva di azioni di portata planetaria non è tale da reggere l’impegno necessario a modificare la scelta del cibo (Ma a me la carne piace!) non si sta parlando di una sconfitta, ma di una debacle. Soprattutto in considerazione della enorme disponibilità di prodotti, esenti da sfruttamento animale, che le nostre società occidentali sono in grado di fornire.
L’occultamento del problema dell’alimentazione anche in relazione alla salvaguardia della natura è un fatto grave e di certo non nuovo. Il documentario-denuncia Una scomoda verità (2006), accolto entusiasticamente dal mondo “contro”, che, per tramite dell’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti Al Gore impone come imperativo morale la lotta contro il surriscaldamento del pianeta, propone anche comportamenti virtuosi adottabili dai singoli, che, diventando buone prassi, aiutano a ridurre i quantitativi di CO2: grande successo, grandi apprezzamenti. Non una parola, una sola, sul ruolo della zootecnia moderna nell’emissione di gas serra e, conseguentemente, sulle responsabilità dell’alimentazione di ognuno. A quanto pare questa si che è una scomoda verità, tanto scomoda che neppure un documentario che la elegge come titolo-denuncia se la sente di affrontarla, tanto scomoda da richiederne il totale oscuramento.
In questo caso il sospetto di mastodontici interessi economici da difendere è più che legittimo, ma ben diversa è la situazione degli attuali movimenti.
Evidentemente la passione etica e l’entusiasmo che smuovono i più giovani non si sono ancora strutturati in autoconsapevolezza e la critica al mondo che giustamente pretendono in consegna dalle precedenti generazioni vive in buona parte di sogni ancora non trasformati in progetti. Precedenti generazioni, che hanno responsabilità enormi sull’attuale condizione del pianeta, ma a cui va dato atto anche di avere messo in moto una forte riflessione critica e autocritica, che investe il campo filosofico, economico, scientifico, psicologico, riflessione da ampliare e sviluppare, per evitare il rischio di arretramenti sempre possibili e di arroccamenti retrogradi sullo status quo.
Non possiamo che augurarci che questo avvenga, nell’interesse declamato dell’ambiente tanto amato, che non è un’entità astratta, ma il risultato tangibile della somma di tutti i nostri comportamenti, che nei fatti oltre che nei desideri dovrebbero tendere al perseguimento del benessere degli umani, non scindibile da quello dei nonumani, che sono quelli che più di tutti pagano il prezzo degli egoismi, dell’ignoranza, della miopia, questi sì del tutto umani.
Sii il cambiamento che vuoi nel mondo, è l’esortazione gandhiana non da ripetere fino a svuotarla della sua potenza, ma da tradurre in stile di vita. Proviamoci. Provateci.
Annamaria Manzoni
Progetto Vivere Vegan