Quando diciamo che le altre specie non ci interessano, non teniamo conto del fatto che invece siamo comunque artefici o complici della loro oppressione e che quindi, volenti o nolenti, che ne siamo consapevoli o meno, abbiamo un ruolo preciso nei loro confronti. Di questo si parla nel libro di Rita Ciatti “Ma le pecore sognano lame elettriche”, che la stessa autrice ci presenta.
Nel 2008, con una vaga coscienza animalista e l’idea di diventare vegetariana in un futuro imprecisato, mi imbattei in un libro che avrebbe avuto un ruolo determinante nella mia formazione antispecista. Quel libro era “I diritti animali” di Tom Regan e mi convinse di due cose: una, che non avevo assolutamente più scuse per continuare a mangiare gli animali o usufruire dei prodotti derivati dalla loro uccisione e sfruttamento; due, che questa decisione non riguardava me soltanto, ossia, non era una mia scelta personale, ma diventava una presa di posizione contro uno sterminio di proporzioni gigantesche e non soltanto per numeri e modalità, ma soprattutto poiché invisibile, cioè non riconosciuto come tale, ma naturalizzato, normalizzato, legittimato socialmente e legalizzato.
Da quel momento iniziai a leggere altri testi sull’argomento, a documentarmi, informarmi – più approfondivo, più prendevo a cuore la questione – e in breve sentii l’esigenza (ma più che un’esigenza, veramente un’urgenza) di comunicare a un pubblico più ampio tutto quello che andavo scoprendo e che, invero, era sempre stato davanti ai miei occhi senza che ne fossi mai stata davvero consapevole.
Così inizia a scrivere di antispecismo su un blog personale, ancora attivo (www.ildolcedomani.com) e in poco tempo, miracolo della rete che connette persone con interessi simili, entrai in contatto con altre persone antispeciste e avviai collaborazioni di vario tipo che reputo significative per la mia formazione.
Da allora l’antispecismo è sempre stato al centro dei miei interessi e impegni e, pur essendomi dedicata nel corso degli anni a diverse forme di attivismo, in cui rientra anche l’ideazione e realizzazione della campagna NOmattatoio, non ho mai abbandonato la dimensione della scrittura.
Perché si decide di scrivere un libro
Ovviamente non si decide di scrivere un libro solo perché si ama scrivere, o meglio, non funziona così per me. Penso che si debba scrivere solo quando si ha effettivamente qualcosa da dire. Che sia un commento a una notizia magari espresso frettolosamente sui propri canali social, o che sia qualcosa di più articolato e meditato, l’importante è sentire l’urgenza di voler dire qualcosa. Nel mio caso: voler parlare per gli altri animali – i quali una voce ce l’hanno eccome, ma viene messa a tacere attraverso l’uso sempre più sofisticato di pratiche violente –, farli divenire soggetti di vita e non meramente risorse, sottraendoli alla narrazione della cultura umana e antropocentrica che li vede come inferiori, deficienti di qualcosa rispetto a noi, merci al nostro servizio.
Veganismo, questione animale e specismo
In questi ultimi anni l’interesse per il veganismo e la questione animale in generale è sicuramente cresciuto, ma, come accade sempre quando un concetto si avvicina a diventare mainstream, è aumentata anche la confusione sui concetti e significati che promuove. Nuovi attori sulla scena mondiale, movimenti che si occupano di ecologia, ambiente, cambiamento climatico, lotta al capitalismo (tutti movimenti necessari, certamente, ma il punto è un altro come vedremo) e, non da ultimo, la pandemia scoppiata lo scorso anno hanno ridefinito anche il modo di affrontare la questione animale da parte degli stessi attivisti e associazioni – purtroppo – a mio avviso talvolta facendoci fare dei passi indietro e finendo per occultare ancora di più l’ideologia oppressiva, già invisibile, di cui gli animali sono vittime da sempre, ossia lo specismo. In aggiunta a ciò, l’inevitabile reazione di un’accresciuta, seppur minima, sensibilità verso il tema ha portato le aziende che sfruttano gli animali a ingannare ancora di più i consumatori insistendo su concetti quali benessere animale, allevamento etico, macellazione rispettosa e via dicendo.
È a questo punto che ho sentito l’esigenza di chiarire alcuni concetti e soprattutto di voler fare un tentativo di analisi dell’oppressione e dello sterminio degli altri animali alla luce proprio di questa ideologia invisibile chiamata specismo; un’ideologia che non è sovrapponibile al capitalismo, né all’ecologismo o altro, ma che informa il modo in cui abbiamo sempre pensato e guardato agli animali in quanto insieme rappresentante il diverso per eccellenza, funzionale a definire – in opposizione – la nostra stessa identità.
Gli altri animali
Mettere in discussione il modo in cui definiamo gli altri animali significa quindi mettere in discussione noi stessi, il concetto stesso di umanità così come si è costituito attraverso i secoli.
In sostanza l’idea che abbiamo degli altri animali è funzionale al mantenimento dell’idea che abbiamo di noi stessi e dei valori che informano la nostra cultura e che fanno capo a una precisa gerarchia del vivente.
Per questo ogni volta che ci facciamo paladini degli degli animali troviamo una resistenza feroce o, nella migliore delle ipotesi, non veniamo presi in considerazione.
Soltanto andando alla radice di queste credenze interiorizzate che informano l’idea che abbiamo di noi stessi e degli animali potremo agire in modo efficace, cosa che non avviene ogni volta che invece continuiamo a parlarne come se fossero agenti inquinanti o ingredienti nocivi per la nostra salute.
Il libro
“Ma le pecore sognano lame elettriche?”, pubblicato da Marco Saya Edizioni, è diviso in due parti: nella prima si parla del modo in cui assorbiamo la cultura in cui nasciamo e come, generazione dopo generazione, interiorizziamo e naturalizziamo lo specismo (e non solo!), presente in ogni nostra produzione, intellettuale e materiale; la seconda descrive i modi concreti in cui gli animali sono schiavizzati, usati e uccisi, mettendo in guardia da soluzioni avveniristiche risultato di concetti quali benessere animale o incentrati sugli effetti degli allevamenti anziché sulla messa in discussione dello specismo. Da qui l’idea del titolo, che è insieme un omaggio e una rielaborazione del celebre titolo di uno dei più famosi romanzi di Philip K. Dick (“Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?”). Il senso poi lo si capirà nel corso della lettura. Il disegno di copertina è stato realizzato da Alessandra Antonini, che ringrazio, e anche questo acquisterà maggiore significato a fine lettura.
Il libro è scritto con un linguaggio comprensibile a tutti e, laddove si fa uso di termini un pochino più specifici, è corredato comunque di numerosi esempi e aneddoti frutto anche della mia esperienza nell’attivismo.
È rivolto a un pubblico ampio, ma anche agli stessi attivisti, a chi è già dentro alla questione animale proprio perché muove una critica ad alcune tendenze in atto da qualche anno nel mondo animalista.
In questo testo ho affrontato diverse questioni, su alcune mi sono volutamente concentrata maggiormente, altre sono state appena accennate. L’obiettivo principale, che spero di aver raggiunto, era quello di far capire meglio cosa sia l’antispecismo mettendo in luce lo specismo in cui tutti siamo immersi e da cui facciamo spesso fatica a liberarci anche noi attivisti, poiché interiorizzato. Continuare a pensare agli animali in quanto individui da proteggere e tutelare, per esempio appellandosi alle leggi sul benessere animale ed evidenziando maltrattamenti negli allevamenti – come se il problema fosse il maltrattamento aggiuntivo e non l’idea in sé di allevarli – continuando a restare quindi invischiati in un’ottica paternalista, significa restare specisti. Chiedere gabbie più grandi, citando ancora Regan, significa restare specisti. Proporre il veganismo come fosse una dieta salutare, magari da adottare un giorno a settimana, significa restare specisti. Le strategie indicano gli obiettivi, ma spesso si fa l’errore di distinguere tra i due concetti, come se fosse possibile continuare a parlare degli animali in un’ottica specista e pensare di arrivare comunque a liberarli dalle gabbie, anche simboliche, entro cui sono rinchiusi.
Una cosa importante: per quanto radicale, non lo definirei un libro “contro qualcosa”, ma PER qualcuno, ossia per gli animali in quanto individui singoli il cui valore inerente non può essere riducibile a nessuna funzione o utilità.
Accompagnato dalla prefazione di Simonetta T. Hofelzer, autrice della short story animalista scritta insieme ad Alda Teodorani dal titolo “Animali da macello” e dalla postfazione di Adriano Fragano, fondatore di Veganzetta e autore di vari testi antispecisti, tra cui l’ultimo “Disobbedienza Vegana”.
Rita Ciatti
Progetto Vivere Vegan