Cosa significa liberare gli animali? Differenza tra azione diretta e liberazione dallo specismo.
Il movimento di liberazione animale talvolta fa uso di slogan del tipo: Animali liberi! Apriamo le gabbie! Chiudiamo tutti i mattatoi e gli allevamenti! Apriamo gli zoo! Gabbie vuote!
Di fatto l’espressione stessa “Liberazione animale” dà l’idea di un’azione immediata e diretta e in cui tutti gli animali attualmente prigionieri vengano liberati.
Ovviamente esistono azioni finalizzate a liberare in modo diretto gli animali dagli allevamenti (di qualsiasi genere: di animali usati per diventare prodotti alimentari o uccisi per la loro pelliccia o torturati nei laboratori dove si effettua la sperimentazione), ma il senso più ampio della liberazione animale presuppone un processo di una durata temporale impossibile a definirsi, progressivo e virtuoso in cui sostanzialmente più che liberare degli individui specifici, si tratterà di non farli più nascere allo scopo di essere sfruttati e uccisi.
Se tale spiegazione vi sembra ovvia è perché forse non vi siete ancora mai trovati a dover rispondere a delle obiezioni particolari. Ma abbiate fiducia, prima o poi vi capiterà: spero quindi che tali riflessioni, per quanto apparentemente banali, possano tornarvi utili.
Ma se chiudessimo tutti gli allevamenti, i circhi e gli zoo, dove metteremmo tutti gli animali e come potremmo provvedere al loro sostentamento?
Come accennato sopra, per processo di liberazione animale non si intende tanto un’azione diretta (che può essere sporadica e limitata solo a un numero limitato di individui), ma si intende innanzitutto un processo culturale di ridefinizione del nostro rapporto con gli altri animali finalizzato a metterne in discussione il mero uso, a prescindere dalle modalità.
Quindi si intende l’avviarsi di un cambio di paradigma totale e radicale in cui venga cancellata l’idea stessa dell’esistenza degli altri animali in funzione nostra – per un nostro utilizzo, tornaconto o per soddisfare determinati interessi e supportare credenze culturali che di fatto non hanno alcun fondamento logico.
In quest’ottica, gli altri animali nascono, vivono e si riproducono per loro stessi, per un senso esistenziale implicito nel valore inerente del loro essere al mondo e dell’esperienza peculiare che ogni individuo ha del mondo stesso.
Quindi abolire gli allevamenti significa non far nascere più individui destinati a diventare “carne” o a produrre latte, uova, miele, pelliccia, pelle ecc.
Una visione inedita, nuova, radicale, un cambio totale nel modo di pensare agli altri animali.
Non si tratta di aprire il cancello di stalle e strutture varie e di lasciar scorrazzare milioni di individui in mezzo alle strade, bensì di andare progressivamente verso uno svuotamento di questi luoghi.
Episodi concreti di riconversione dell’attività di allevamento ci sono già stati e parliamo di strutture anche molto grosse, non certo di piccole aziende con un numero esiguo di animali che quindi è più facile dismettere.
In Italia cito l’esempio di Chiara Collizzolli, discendente di una famiglia di allevatori di maiali in Veneto che nel tempo ha maturato una coscienza antispecista e ha dismesso l’attività. Consiglio poi la visione dell’ottimo documentario The Last Pig, in cui si raccontano le vicende di un allevatore di maiali che a un certo punto, stanco di avviarli al mattatoio, decide di smettere. Aveva un numero elevato di individui, ragion per cui nel momento in cui decide di smettere non riesce a salvarli tutti (riesce a sistemarne solo alcuni in dei santuari), ma almeno saranno gli ultimi (appunto, The Last Pig, che tradotto significa L’ultimo maiale) a essere uccisi.
Purtroppo per gli animali di oggi non è che possiamo fare molto se non salvarne qualcuno tramite l’azione diretta, ma possiamo lavorare affinché lo specismo e questo dominio totale sui loro corpi abbia termine in un futuro prossimo.
Ci sono processi che richiedono tempo, specialmente quando mettono in discussione pratiche così radicate, normalizzate e naturalizzate da secoli. L’importante è non confondere la gradualità di questo processo con i famigerati piccoli passi incentrati sul benessere animale: che in realtà sono passi indietro perché non mettono in discussione lo specismo e non conducono a una nuova visione e concezione degli altri animali.
La liberazione animale è un ideale meraviglioso che guarda al futuro. Nei rifugi che ospitano i pochi individui salvati tramite azione diretta – pochi rispetto al numero complessivo di quelli uccisi ma tanti, spesso, per le risorse materiali ed economiche delle strutture che li ospitano – possiamo avere un assaggio di questo futuro possibile, cioè vedere come si può convivere in modo pacifico e rispettoso con le altre specie, che ad ogni modo se ne starebbero nei loro habitat e che noi potremmo al massimo aiutare se in difficoltà, così come aiuteremmo un nostro simile umano; dovremo imparare una convivenza sana con quelle specie semiselvatiche che vivono anche nei centri urbani o che si avvicinano in cerca di cibo, tenendo presente che una società ridefinita in senso antispecista riconquisterebbe anche maggior equilibrio a livello di diversificazione di habitat naturali, spazi verdi, boschi, foreste (gli allevamenti distruggono territori e causano desertificazione e deforestazione), quindi probabilmente molti animali non avrebbero l’esigenza di avvicinarsi ai nostri centri abitati.
Ma così molte razze o specie si estinguerebbero.
Questa obiezione mi è stata rivolta tante volte. La prima volta, me la ricordo ancora, fu in occasione di un dibattito sulla corrida. Alcuni difensori di questa pratica barbara mi dissero che tale “tradizione” portava avanti, invece, il nobile scopo di preservare delle razze particolari di tori che altrimenti si sarebbero estinte.
Non so voi, ma io non ci terrei affatto a portare avanti la mia specie, se il prezzo fosse quello di nascere in un lager e poi venire sfruttata e uccisa per il sollazzo di altre specie.
A parte il fatto che selezionare razze specifiche per meglio assolvere alcune funzioni che riguardano gli interessi della nostra (che siano economici o di altro genere) è una giustificazione che trova ragione in un principio assurdo ed eticamente inaccettabile, e comunque è l’evoluzione naturale che semmai seleziona determinate caratteristiche e porta alla scomparsa o affermarsi numerico di alcune razze su altre. È difficile credere che il torero abbia a cuore le sorti di quegli stessi individui che poi massacra brutalmente (e così l’allevatore che li manda al mattatoio).
Che noi si intervenga perché così abbiamo “risorse” con cui mettere su spettacoli ignobili di una violenza senza pari è un discorso aberrante che in nessun conto tiene in considerazione il rispetto degli animali, delle singole razze o delle singole specie, tanto meno della natura perché di naturale non ha nulla e perché la corrida e gli allevamenti in generale sono pratiche culturali e non naturali.
I maiali (o le mucche o altri animali) in natura non sopravviverebbero, quindi si estinguerebbero.
Pure questa è un’obiezione fallace. In alcune zone è possibile incontrare gruppi di bovini selvatici, cavalli selvatici, conigli selvatici, maiali selvatici, capre selvatiche. Nella zona di Chernobyl, dove la presenza umana dopo l’incidente alle centrale nucleare è stata fortemente limitata, si sta assistendo a un ripopolamento di diverse specie animali. Le mucche sono diventate selvatiche e hanno creato una loro struttura sociale. Ovviamente mostrano comportamenti molto diversi rispetto a quelli che vediamo negli allevamenti: sono felici. Evolutivamente nessuna specie ha bisogno di altre per sopravvivere (a parte alcuni organismi simbiotici o i parassiti, ma non è certo il caso degli animali che sfruttiamo); tutte le specie sono il frutto di adattamento e processi evolutivi lunghissimi. Pensare che alcune specie hanno necessariamente bisogno di noi è puro antropocentrismo.
Forse non avremmo quelle razze che oggi vengono selezionate al fine di produrre latte in quantità massicce, non avremmo animali gonfi di ormoni, polli che nemmeno si reggono sulle zampe poiché costretti a ingrassare in tempi brevissimi grazie alla somministrazione di farmaci, non avremmo topi selezionati geneticamente o che nascono già con patologie specifiche al fine di farci dei test.
Rinunciare a queste selezioni è un dovere morale nell’interesse degli animali giacché continuare a farli nascere soddisfa un interesse meramente economico. E del resto non è che con questi animali intratteniamo relazioni emotivamente appaganti o un rapporto di rispetto, li consideriamo prodotti, cibo, quindi la preoccupazione di una loro eventuale scomparsa suona più come una pessima giustificazione, che come sincera preoccupazione.
I cacciatori rispettano la natura e ripopolano alcune specie, per esempio i fagiani già si sarebbero estinti senza la caccia.
Anche qui, ma di quale rispetto parliamo se sono animali fatti riprodurre al solo scopo di far divertire degli esaltati con il gusto del sangue, della violenza, delle armi?
Immaginate bambini fatti nascere per poi essere lanciati in parchi a tema al fine di farli braccare, inseguire, cacciare e uccidere da uomini o donne armati per il loro sollazzo.
Possiamo parlare di rispetto della natura? Tanto meno possiamo parlare di interesse sincero verso questi animali che vengono pensati, immaginati e fatti nascere al solo scopo di procurare divertimento, guadagno o soddisfare presunte necessità basate su credenze ormai superate.
Gli zoo esistono per tutelare specie a rischio estinzione e individui che non possono essere reimmessi in libertà.
Anche questa è obiezione fallace cui spesso si appellano le persone che portano i bambini allo zoo o che ingenuamente credono nel valore di recupero di queste strutture (alcune hanno questa funzione, ma non certo gli zoo a pagamento).
Innanzitutto non è vero che gli individui prigionieri non possano mai essere reimmessi in natura. Esistono santuari o rifugi che fanno proprio questo tipo di lavoro, cioè recuperano animali provenienti dagli zoo o circhi e li inseriscono in un programma di riabilitazione per poterli liberare. Certo, non tutti; e non sempre è possibile, ma anche se non liberi almeno saranno ospiti di strutture che non lucrano sulla loro pelle, che non perpetuano la visione dell’animale in gabbia da guardare (e dove peraltro è ben lontano dal comportarsi come in natura) e dove tutto è fatto nel loro interesse e non dei visitatori che vogliono togliersi lo sfizio di guardare un leone in gabbia.
Gli attuali zoo o bioparchi che dir si voglia, come quello di Roma, usano questa scusa, ma in realtà continuano a fa riprodurre gli individui presenti così facendo nascere cuccioli che poi saranno prigionieri per tutta la vita, in un circolo vizioso che ha il solo scopo di continuare a far esistere queste prigioni finanziate in parte dai Comuni, in parte, ovviamente, dai cittadini che pagano il biglietto e poi da pessime politiche speciste e ignoranti dell’etologia delle diverse specie.
Andare allo zoo significa finanziare queste prigioni. Se proprio si vogliono aiutare gli animali perché si tiene alla loro sopravvivenza si possono fare donazioni ai rifugi e santuari che in parte li riabilitano, in parte li ospitano dandogli sostentamento e protezione. In Africa per esempio esistono santuari che si occupano di gorilla rimasti orfani a causa dei bracconieri e che una volta adulti verranno inseriti gradualmente nei gruppi dei loro simili in libertà.
Preservare una specie magari proveniente da un diverso continente e tenerla rinchiusa dentro un habitat artificiale non è fare l’interesse di quella specie o di quel singolo individuo, ma assecondare e soddisfare il nostro antropocentrismo ed egocentrismo mirati al controllo e dominio degli altri viventi. Non si capisce poi perché animali di altri continenti dovrebbero trovarsi nelle nostre città. Sono secoli che ci sentiamo rispondere che è perché non è possibile liberarli, ma se esistono individui prigionieri ancora oggi è perché sono stati fatti riprodurre per lucrare sulla loro pelle.
Liberare gli animali
Liberare gli animali significa quindi liberarci dalla cultura specista che li vede come risorse rinnovabili. Processo lungo, ma l’unico possibile per poter affermare di rispettarli e di rispettare la natura.
Far estinguere, cioè non far più nascere, polli o mucche gonfi di ormoni è un dovere morale, non un dilemma etico.
L’unica domanda sensata che dovremmo quindi porci non è che fine faranno gli animali un domani che gli allevamenti saranno aboliti; ma quale fine fanno oggi.
Di certo non possiamo immaginare nei minimi particolari una società antispecista, ma sicuramente ci arriveremo per gradi e non credo che potremo fare peggio di quanto sta avvenendo oggi: distruzione di territori, inquinamento, desertificazione, deforestazione e soprattutto violenza sistemica su miliardi di individui. Senza polli broiler (razza allevata esclusivamente per la “carne”), ma con minore sofferenza e violenza. Rinunciare ad alcune razze significa rinunciare al dominio sui viventi. Comunque sia, sarà una società eticamente migliore.
Nota: Il titolo è una parafrasi della nota domanda che il protagonista del romanzo di J. D. Salinger, Il giovane Holden, si pone a proposito delle anatre dello stagno di Central Park quando d’inverno si ghiaccia.
Rita Ciatti
Progetto Vivere Vegan