Quarta ed ultima parte dell’articolo “Le ragioni del Veganismo”. Qui Rita Ciatti analizza la cultura della carne e l’invisibilità dell’individuo animale nel processo di trasformazione dall’allevamento allo scaffale del supermercato.
Nella quarta e ultima parte di questo lungo articolo sulle ragioni del veganismo proviamo ad analizzare il mito della carne e l’ideologia carnista alla luce dei significati ad essi associati culturalmente.
Si tende a credere che la nostra specie abbia sempre mangiato animali perché ne avrebbe necessità al pari delle specie carnivore. Questo è falso. Noi non siamo animali carnivori, ma onnivori, questo significa che possiamo avere una dieta varia e che non ci è affatto necessario mangiare altri animali per stare in salute. Da dove deriva allora questa convinzione che sia necessario mangiare animali e i loro derivati?
Sappiamo che sin dall’antichità ci sono state persone, più o meno famose, vegetariane e strettamente vegetariane (vegane, anche se il termine all’epoca non era ancora stato coniato) e senza che vi fossero in commercio tutti i prodotti sostitutivi che è facile trovare oggi. La gente comune mangiava soprattutto legumi, vegetali, cereali. La carne era considerata un “bene” di lusso.
Jeremy Rifkin, nel suo saggio Ecocidio, racconta come la “cultura della bistecca” si sia imposta in occidente attraverso i secoli, “dagli albori della civiltà umana, passando attraverso il mito dei cowboy, gli infernali mattatoi di Chicago e le stalle superautomatizzate, fino ai giorni nostri” per poi diffondersi su tutto il globo.
Dal barbecue a McDonald’s
Mangiare carne, in particolare quella bovina, cioè potersi permettere l’acquisto di carni rosse per molto tempo è stato un traguardo che testimoniava il successo della scalata sociale, l’avvenuto raggiungimento di un certo benessere economico.
Nel sogno americano non poteva mancare la casa di proprietà con giardino dove poter fare il barbecue con gli amici durante il tempo libero. La diffusione globale dei vari McDonald’s ha poi fatto il resto rendendo accessibile a tutti quello che prima era un “prodotto” di lusso e aggiungendo altri significati all’atto del mangiare carne. I McDonald’s non sono soltanto posti in cui poter consumare degli hamburger, ma “esperienze”: ludiche per i più piccini e di socializzazione per gli adolescenti. Con una loro precisa iconografia costituiscono quasi dei riti di passaggio per i bambini americani.
Questo immaginario del consumo di carne e dei luoghi ove si consuma, che sia il giardino con il barbecue la domenica o il fast food cittadino, ha condizionato e letteralmente colonizzato – attraverso il cinema, la letteratura, il turismo di massa, la televisione – anche il nostro stile di vita e soprattutto ha contribuito a far divenire l’oggetto “carne” un vero e proprio status symbol da cui fatichiamo ad affrancarci nonostante la messa in guardia dei suoi effetti devastanti sulla salute e sull’ambiente e le opere di sensibilizzazione riguardo la crudeltà di ciò che facciamo agli animali, i quali sono semplicemente dei referenti assenti, anzi, spesso nemmeno referenti, dal momento che a livello di significati associati la “carne” è divenuta un vero e proprio oggetto simbolico di cui si perde la natura del processo di trasformazione attraverso il quale dall’allevamento è giunta sugli scaffali del supermercato.
Il culto della carne
Mangiare carne quindi non è mai stato soltanto un atto legato al mangiare, ma soprattutto un atto di appropriazione culturale: del sogno americano, di conquista del nuovo mondo, della natura, di trionfo del razionale e del controllo sull’irrazionale e sul caos. In poche parole mangiare carne è un po’ il contraltare laico dell’assunzione del corpo del Cristo durante il rito della Comunione. Il culto della carne è una vera e propria religione con i suoi santuari, i suoi riti, i suoi significati occulti.
In effetti, come scrisse Ceronetti nel Il silenzio del corpo, nel 1979: “Dicono di avere abolito i sacrifici animali! Soltanto il rito hanno abolito: li sterminano ininterrottamente, illimitatamente, senza bisogno: il sacerdote si è fatto industria.”
Il mito del cowboy che raduna le mandrie a cavallo – ricordiamo che il popolo Kurga, proveniente dalle steppe euroasiatiche nel 4.400 AC, fu il primo ad allevare i cavalli e ad addomesticarli per poterli cavalcare, pratica che rese possibile l’allevamento e gestione di mandrie sempre più numerose di bovini – racchiude in sé significati legati alla conquista, al coraggio, alla mascolinità. Tutt’oggi la carne è associata alla forza e a quei valori che testimoniano l’essere veri uomini, mentre mangiare vegetali viene ritenuto segno di debolezza, di eccessiva sensibilità, un’alimentazione per “signorine” delicate. Ovviamente questi stereotipi sul femminile e maschile associati ai vegetali e alla carne si alimentano e rafforzano a vicenda.
Si è ancora convinti, nonostante le evidenze scientifiche dicano il contrario, che per fare sport sia necessario assumere proteine animali altrimenti non si avrebbe l’energia necessaria, quando in realtà l’energia è data dai carboidrati e dagli zuccheri.
Tutte queste credenze faticano a scomparire perché continuano a venire trasmesse culturalmente attraverso il linguaggio, i modi di dire, gli stereotipi, la cultura di massa e ovviamente la pubblicità ingannevole di chi trae profitto dagli allevamenti di animali.
Non basta cambiare modalità di produzione, è necessario acquisire una coscienza antispecista
Oggi la cultura della carne, con l’emergere della questione ambientale, fortunatamente è in netto declino, ma siamo ancora ben lontani dall’acquisizione di una vera coscienza antispecista perché, sebbene i cambiamenti sociali possano essere veloci, anche grazie ai traguardi tecnologici, le coscienze delle persone sono invece molto più lente a cambiare. Non si scalza facilmente dalle convinzioni comuni un’abitudine con tutti i significati stratificati annessi e connessi che si porta dietro, soprattutto quando hanno a che fare con la socialità e con l’affettività.
Quello cui stiamo assistendo oggi infatti non è tanto la messa in discussione della cultura della bistecca, quanto della sua modalità di produzione. Che si parli di carne artificiale o di allevamenti più sostenibili da un punto di vista ambientale (magari idroponici o di animali modificati geneticamente oppure di altre specie quali insetti) sembra proprio che il tratto distintivo della nostra specie sia quello di non voler rinunciare a mangiare carne.
Questo ovviamente anche perché, se da una parte è difficile risalire a quel referente assente che è l’individuo animale, dall’altra siamo ancora totalmente immersi in un’ideologia specista e antropocentrica che potremmo definire di suprematismo dell’umano. Per cui, anche ammesso che si “riconosca” il pollo, il vitello, il maiale, il manzo, l’agnello, si continua a considerare irrilevante la sua uccisione. “Un sacrificio” laico che continua a rendersi necessario per soddisfare i capricci dell’umano in un perpetuarsi di menzogne sulla presunta necessità.
La nostra identità si è formata attraverso un gioco di opposizione continua tra noi e gli altri animali. Animali che dominiamo, che addomestichiamo, di cui mangiamo le carni. Abbiamo talmente introiettato questa opposizione ontologica che evidentemente la sola idea di dover rinunciare ad allevarli, dominarli, mangiarli ci fa temere di perdere la nostra identità.
Oggi nuove sfide ci stanno facendo comprendere l’illusorietà del controllo sulla natura. Siamo animali vulnerabili e nessuna logica di dominio potrà renderci immortali o farci stare al sicuro.
Come scrive Rifkin sempre in Ecocidio: “I principi fondamentali dell’Illuminismo hanno spogliato la natura della propria vitalità e derubato le altre creature della propria essenza originale e del proprio valore intrinseco. Nel mondo moderno, freddo e calcolatore, abbiamo scambiato la salvezza eterna con l’interesse materiale personale, il rinnovamento con la convenienza, la capacità generativa con le quote di produzione.
[…] L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente per adeguarle ai ristretti obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica.”[1]
Mettere in discussione il mangiare carne significa quindi mettere in discussione un’idea precisa di umanità e di civiltà. Significa rinunciare al suprematismo umano e comprendere che questa ideologia di dominio, anziché renderci immortali, ci sta in realtà spingendo verso un baratro.
Dalla parte degli animali: trasformare la bistecca da status symbol a simbolo di morte e violenza
Dalla nostra, o meglio, dalla parte del veganismo e dell’antispecismo, abbiamo una verità dimostrabile: la senzienza e desiderio di libertà degli altri animali, il valore intrinseco delle loro esistenze, la loro capacità di fare esperienza del mondo.
Abolendo gli allevamenti e ogni altra forma di sfruttamento e uccisione degli animali potremmo veramente entrare in una nuova era volta al rispetto delle altre specie con cui convidiamo il pianeta. La scelta vegana è oggi l’unica scelta possibile di rispetto degli animali e del pianeta in cui viviamo.
Sarà un lavoro lungo, ma è necessario cambiare tutti quei significati positivi che culturalmente associamo alla carne per mostrarli sotto una nuova luce. Illuminare le zone oscure della sua produzione, la violenza implicita in ogni allevamento, la sottrazione di risorse idriche e di terreni, la distruzione del pianeta.
Rita Ciatti
Progetto Vivere Vegan
[1] Pag. 322 – Jeremy Rifkin, Ecocidio, Oscar Mondadori, 2002.