Il Manifesto, 21 dicembre 2005
Diritti umani e diritto (alla vita) degli animali possono essere disgiunti? L’amore per gli animali al tempo della peste (aviaria). Intervista a Tom Regan, filosofo del North Carolina, uno dei riferimenti teorici del movimento animalista, autore del recente «Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali», analisi dei diritti di chi è soggetto-di-una-vita e cronaca puntuale degli orrori da cui liberare gli esseri viventi.
L’obiettivo di eliminare dal mondo le sbarre e le catene è evidentemente rivoluzionario, tanto più se si riferisce a quell’ulteriore frontiera che è la liberazione degli animali; di terra, aria e acqua. Per essi la vita (in questo mondo che per gli stessi umani e per la natura è spesso un mare di pece) è un eterno olocausto, secondo l’espressione dello scrittore Isaac B. Singer. La necessità di allargare la sfera degli esseri viventi i cui interessi sono presi in considerazione è al centro di diversi studi, etologici, filosofici e psicologici. Ad esempio, lo psicanalista statunitense Jeffrey Moussaieff Masson, autore de Il maiale che cantava alla luna, ha studiato gli animali «da reddito», galline e vitelli, maiali e capre, pecore e oche ecc., verificando che il loro essere senzienti indica non solo la dimensione di base della sensibilità, cioè aver paura, aver dolore, sentire, vedere, ma hanno emozioni molto sottili: amicizia, nostalgia, voglia di libertà. Il cammino verso la fine delle gabbie non è un’utopia ed è per molti tratti sovrapponibile a quello verso la liberazione umana (un sito di riflessione dedicato a questo nesso è Liberazioni). Questa è la linea del filosofo statunitense Tom Regan, attivista per i diritti degli animali (Animal Rights Advocates, in sigla Ara), mentre esce l’edizione italiana del suo ultimo libro, Gabbie vuote (Sonda, settembre 2005). Come scrivono i curatori dell’edizione italiana Massimo Filippi e Alessandra Galbiati, Gabbie vuote funziona come un paio di occhiali che «portano in primo piano quel è che nascosto ai più; una volta indossati sarà difficile pensare che possa esistere qualcosa come i diritti umani senza quelli animali, e si capirà perché le violazioni degli uni e degli altri sono spesso inestricabili e contemporanee».
Lei scrive che per cambiare le leggi, l’educazione e l’economia rendendole congrue ai diritti animali – e ovviamente a quelli umani – occorre attivare le masse. Ma la sensibilità verso i non umani non è forse un’inclinazione quasi congenita, che si ha o non si ha?
Dico sempre che se Tom Regan è diventato Ara, ormai trent’anni fa, lo può diventare chiunque. Prima, semplicemente non mi ponevo il problema dei non umani; mangiavo ogni tipo di carne, andavo a pesca. Al liceo avevo dissezionato animaletti senza problemi e in seguito avevo lavorato come garzone in una macelleria maneggiando la carne morta con fredda determinazione. Penso che i «davinciani» (da Leonardo da Vinci, vegetariano che comprava volatili in gabbia per liberarli, ndr) cioè quelli che sin da bambini hanno una naturale empatia verso gli animali, siano una minoranza fra gli Ara. Un’altra minoranza sono i damasceni, folgorati sulla via di Damasco e per sempre da un evento traumatico (magari aver incrociato per strada gli occhi di maiali portati al macello). I più sono «temporeggiatori»: procedono per tentativi, un passo dopo l’altro, una ragione per volta. Io sono indubbiamente uno di loro; per questo penso di riuscire a capirli meglio di altri, e credo che fra le mie missioni ci sia quella di aiutarli a vedere gli animali in modo diverso.
Per mettere gli occhiali ai lettori, il suo libro ha un’importante sessione di cronaca che pare una discesa agli inferi. Eppure, non ci sono leggi per il benessere animale?
Sono le grandi industrie di sfruttamento animale, che di esseri ne usano miliardi togliendo loro libertà e vita, a parlare di benessere animale! Non ho fatto che descrivere la realtà degli animali trasformati in cibo: la crudezza degli allevamenti intensivi di bovini da carne, maiali, polli, galline ovaiole e relativi pulcini maschi rottamati, vacche da latte e relativi vitelli maschi da carne; la macellazione nient’affatto indolore e purtroppo molto cosciente, e del tutto priva di regole quanto ai pesci. Ho descritto le allucinanti condizioni degli animali trasformati in abbigliamento: non solo le violenze per le pellicce, ma anche quelle per ottenere lana (pecore australiane come macchine) e il cuoio (in India molte vacche, anziane, sono trasportate e macellate con strazio solo per ricavarne la pelle). E poi gli animali trasformati in spettacolo, sport e strumenti di ricerca. No, le leggi non garantiscono i diritti animali. Gli animali sono titolari di diritti in quanto soggetti-di-una-vita, consapevoli del mondo; malgrado le molte differenze, condividono con noi somiglianze di linguaggio, anatomia e fisiologia (il sistema nervoso) e una comune origine. L’obiezione classica è: in questo mondo sono gli stessi diritti umani e dell’ambiente a essere violati, e bisogna cominciare da quelli. Ecco un buon modo per rimandare all’infinito qualunque impegno in materia di diritti animali: poiché qualche problema umano ci sarà sempre! E poi, sono due facce di una stessa medaglia.
Il diritto degli animali è principalmente il diritto a non soffrire, fisicamente e psichicamente, come chiesero Gandhi e il filosofo utilitarista Jeremy Bentham («non importa che gli animali pensino, non importa che parlino; importa il fatto che soffrono»)?
E’ proprio perché i diritti degli animali sono violati che si provocano o permettono tante sofferenze. Alleviarle è ovviamente centrale nel pensiero e nella pratica degli Ara, ma c’è dell’altro. Il diritto degli animali è anche quello a rimanere in vita, a non essere soppressi; altrimenti potremmo ritenere legittimo far nascere delle creature con l’obiettivo di usarle e ucciderle, purché senza farle soffrire, con spazi a disposizione e anestesia finale. C’è chi nel movimento dei diritti animali parla di «sostituzione»: potrebbe essere lecito uccidere animali purché li si faccia felici e li si rimpiazzi con altri. Ma se il diritto è anche quello alla vita, ciò non è accettabile.
In molti casi è evidente che lo sfruttamento degli animali non giova agli umani né all’ambiente; ma in altri, quando sembrerebbe che gli umani ne traggano benefici, è possibile arrivare a un compromesso fra diritti animali ed esigenze umane?
Prendiamo il caso della sperimentazione animale. In molti chiedono un percorso del tipo «3R» ovvero raffinare i metodi, ridurre il numero di cavie, rimpiazzare gli animali con altri metodi di ricerca. Ma l’unica R accettabile è la terza. Se anche la vivisezione servisse, e non lo credo, sarebbe sbagliata lo stesso: i diritti degli altri soggetti-di-una-vita sono inviolabili, oggettivi. Se come Ara accettiamo le altre due R, ciò significa dire che è possibile continuare a vivisezionare. Capisco le difficoltà, e allora dico: cominciate a eliminare totalmente gli animali dalle forme di ricerca più inaccettabili, ad esempio quella sulle armi; e a escludere del tutto i primati dalla sperimentazione. Quanto agli animali da cibo, certo, una gabbia un po’ più grande per i polli è meglio per loro di una piccola. Ma chi può decidere quanto più grande deve essere perché sia «sufficiente»? Insomma, non vogliamo gabbie più grandi: non vogliamo più gabbie.
Peter Singer, autore di Liberazione animale, cerca un confine fra gli esseri che possono provare sofferenza e gli altri; lo colloca a livello dei cefalopodi. Ma i vegetali, la cui sensibilità fu studiata dallo studioso indiano Jagadish Chandra Bose, autore di Response in the Living and Non-living? E gli insetti?
Nel mio libro mi focalizzo sui mammiferi, sui vertebrati e sui pesci. Di essi si sa che sono consapevoli del mondo e in grado di sentire il dolore. Se si scoprisse che anche insetti e piante sono coscienti e sofferenti, certo la nostra esistenza diventerebbe complicatissima; ai limiti dell’impossibile. Ma penso che dobbiamo agire allo stato attuale delle conoscenze e del buon senso, rispettare i diritti di chi è già riconosciuto cosciente. Aspettare immobili nuove acquisizioni, nuove verità, è una scusa per non fare. Ed è ovvio che quando cerchiamo di minimizzare il danno arrecato a tutti gli esseri viventi ci sono altri valori che rispettiamo: camminiamo più leggeri possibile sulla Terra.
Poiché tutti i prodotti animali sono sostituibilissimi (e sul lato alimentare il recente successo del nutriente, gustoso, versatile e italianissimo «muscolo di grano» ne è una prova), in un mondo senza sfruttamenti sparirebbero del tutto vacche, pecore, galline, conigli, maiali e altri «domestici»?
Certo, gli allevamenti da reddito si ridurrebbero di numero e poi sparirebbero. Dunque ci sarebbero molti ma molti meno animali domestici: adesso sono tanti perché destinati al macello e al successivo utilizzo. Nella situazione rivoluzionaria per la quale lavoriamo, saranno pochi ma avranno una vita ricca, avviata verso una morte naturale, saranno alloggiati in quelli che negli Usa chiamiamo santuari o diventeranno animali d’affezione.
Come scrisse quasi un secolo fa Upton Sinclair in The Jungle, indagine sociologica sui macelli di Chicago, nella catena zootecnica – allevamenti, macelli, pesca, lavorazione della carne, concerie – i lavori ingrati sono forse la maggioranza; in India sono spesso destinati agli intoccabili…
Negli Stati uniti queste sono occupazioni da minoranze sfavorite, da clandestini. Da poveri. Da paria, in un certo senso. Vi si registrano percentuali elevate di malattie professionali, incidenti sul lavoro, patologie infettive. E’ come se la società concentrasse su certe classi umane più deboli il lavoro «sporco» di uccidere e trasformare gli animali.