Il caso dell’orsa Jj4 (Gaia) ha mobilitato tante persone ieri, domenica 23 aprile, davanti al Casteller, dove è rinchiusa insieme con M49 (Papillon). I manifestanti hanno chiesto la liberazione dei plantigradi prigionieri e il rispetto e la libertà per tutti gli orsi che vivono in Trentino, ottenendo una notevole eco mediatica.
La mucca che fugge da un allevamento, l’elefante che evade da un circo, il maiale che si getta dal camion mentre sta andando al mattatoio, l’orsa che viene ingiustamente catturata e imprigionata. Cos’hanno in comune questi individui che finalmente la società riconosce come tali, che escono fuori dai margini di quelle definizioni che ne annullano soggettività ed esistenze?
Individui che si ribellano
Hanno in comune il fatto di aver fatto qualcosa che la società non si aspetta, così manifestando innanzitutto il loro essere individui che esprimono volontà, intenzioni, desideri e aspirazioni. Sono individui che si ribellano, che provano, con i mezzi a disposizione che hanno – il loro corpo, nient’altro che il loro corpo – a cambiare il destino che la cultura in cui viviamo ha stabilito e progettato per loro.
Anche Gaia – JJ4 il nome che le hanno dato le Istituzioni – ha agito per esprimere la sua ribellione: all’invasione dei suoi spazi, al pericolo avvertito per i suoi cuccioli.
Gli animali che si ribellano o si difendono da un pericolo percepito possono anche ferire o uccidere degli umani. Capita nei circhi, negli allevamenti, nei mari e nei boschi.
Tutti questi animali poi hanno qualcos’altro in comune: che si parla di loro, nei giornali, in tv, alla radio, sui social, nei discorsi delle persone. Diventano casi mediatici, escono fuori dall’anonimato e indifferenza che solitamente li riguarda e improvvisamente, loro malgrado, dei simboli.
Individui e non numeri
Degli animali non si parla mai in termini di individualità – irripetibilità della loro soggettività, singolarità delle loro esperienze che ne fanno esseri unici -, ma solo in termini di numero, massa informe, peso, misure, esemplari intercambiabili su un fondale che chiamiamo natura e che pensiamo esista per sollazzarci e darci rifugio emotivo. Anche quando vengono nominati, menzionati – nei menù, nelle etichette sulle confezioni dove vengono incellophanati i loro corpi a brandelli, nei discorsi – rimangono dei referenti assenti.
Invece nei casi in cui sopra, finalmente visti nella loro singolarità, vengono chiamati per nome, occupano i nostri pensieri, smuovono il nostro senso di giustizia, la nostra indignazione e rabbia.
Questo è un fatto assolutamente positivo, per due ragioni.
La prima, banalmente, è che l’attenzione mediatica fa sì che per una volta venga meno la rimozione collettiva relativa allo sfruttamento animale e in generale al modo in cui ci rapportiamo agli animali.
La seconda è che ottenendo la mobilitazione di così tante persone che solitamente non si occupano, né preoccupano degli altri animali, lungi dall’essere un momento fine a sé stesso, potrebbe alzare l’asticella della lotta.
Questi casi si rivelano infatti per essere casi di palese ingiustizia anche agli occhi di chi ancora non ha mai riflettuto su altre forme di schiavitù e prigionia animale e diventano dei simboli della lotta in toto per la liberazione animale, come fu per Green Hill (la cui campagna è addirittura uscita fuori dai confini nazionali ed è diventata un esempio) o come potrebbe essere per gli orsi, ora uccisi, ora rinchiusi in quella prigione chiamata Casteller, peraltro gestito da cacciatori.
Nel circolo ermeneutico della conoscenza fare luce su un’ingiustizia in particolare o su una forma di sfruttamento specifica potrebbe essere un fattore determinante nella comprensione dello specismo nei suoi tanti aspetti e sfumature.
Gaia e il bosco
Tornando al caso di Gaia, infatti, cosa potrebbe esserci di più significativo ed esemplificativo dello specismo, della cattura di un individuo che viveva libera con i propri cuccioli e che improvvisamente si risveglia dentro una prigione senza più i suoi figli e solo perché è un’orsa (ma potrebbe essere stata un cinghiale o un altro animale qualsiasi; il punto è che è un animale, soltanto un animale, qualcuno ontologicamente considerato inferiore)?
Gli specisti spesso accusano noi animalisti di avere una visione disneyana della natura o di antropomorfizzare gli altri animali, cioè attribuirgli pensieri e intenzioni tipici della nostra specie.
Eppure cosa potrebbe esserci di più disneyano di sottovalutare i comportamenti degli animali selvatici, di ignorarli, trascurarli, minimizzarli? Cosa di più antropocentrico di considerare i boschi al pari di un parco giochi e non un ambiente in cui vivono anche altre specie? E cosa di più antropocentrico di mettere sotto accusa un’orsa per aver agito da orsa che difende i propri cuccioli di fronte a un pericolo? O ancora, cosa potrebbe esserci di maggiormente antropocentrico della manifestazione senza limiti di un’arroganza istituzionale che in sprezzo di ogni buon senso vorrebbe ripulire i boschi dagli orsi? E ancora, cosa, se non immaginare gli orsi al pari di figurine adorabili finché si tratta di descrivere la ricchezza della natura trentina o di promuoverne il turismo, ma che diventano improvvisamente problematici quando ci si accorge che gli animali selvatici non sono cagnolini addomesticati?
È la concezione della natura che hanno gli specisti a essere disneyana, ossia un parco giochi a misura dell’umano e dei cacciatori da cui trarre profitti infiniti.
Animalisti, antispecisti, ambientalisti: uniti per Gaia
Che il caso di Gaia sia uscito fuori dall’ambiente prettamente animalista e antispecista – persino a Roma, nei pressi dello Stadio Olimpico, i tifosi della Lazio hanno esposto uno striscione con su scritto “Gli assassini siete voi! Salviamo mamma orsa JJ4” – non può che essere cosa positiva perché significa che un numero importante di persone è disposto ad attivarsi, a mettersi in ascolto, a esporsi in difesa di un animale non umano.
Certo, dicono i soliti benaltristi, lo fanno con il panino e mortadella in mano, ma intanto questo caso potrebbe dare nuovo slancio alla lotta come avvenne ai tempi di Green Hill (guarda caso fu proprio in quel periodo che in Italia si registrò un aumento significativo delle persone che scelsero di diventare vegane e che si avvicinarono all’antispecismo, diventando attiviste).
Le lotte non procedono in linea retta, né le reazioni della nostra specie sono spesso prevedibili. So che, in quanto specie, abbiamo spesso bisogno di simboli, di moventi, di immedesimazione con le vittime per poter agire e l’immedesimazione scatta più facilmente quando anziché parlare di animali in modo generico (purtroppo nel termine animali abbiamo racchiuso tutti i significati negativi in opposizione a quello di umanità), si parla di un singolo individuo che, come dicevo sopra, viene finalmente visto e la cui esistenza e storia vengono raccontate e immaginate; per esempio il fatto che Gaia abbia tre cuccioli ce la fa immaginare madre intenta ad accudirli, ci fa supporre il suo strazio per la separazione e ci immaginiamo l’angoscia di questi cuccioli che la cercano e chiamano.
Ogni giorno accade lo stesso alle mucche, pecore, capre, scrofe, bufale, ma un caso singolo è più facile da visualizzare. Purtroppo la mente umana funziona così, siamo fatti così. I numeri e le statistiche ci allontanano, ci fanno sentire impotenti, ci danno la percezione dell’inanità delle nostre lotte, mentre l’attivazione per un singolo caso la vediamo come un successo possibile. Attivarci comunque ci cambia, ci rende più sensibili e un successo ci fa capire che davvero con l’unione e l’uso di strategie mirate potrebbero cambiare le cose.
È come quando si inizia un percorso: dopo i primi passi tutto diventa possibile. Ma quei primi passi, per quanto distanti dalla metà, sono necessari.
Gaia, suo malgrado, in questi giorni è entrata nel cuore di molti. Temi come la gestione dei boschi, il nostro rapporto con i selvatici, l’abolizione della caccia, la responsabilità di cacciatori, allevatori e consumatori carnisti che hanno ridotto il pianeta a un mattatoio iniziano a circolare anche al di fuori del nostro ambiente e questo è sicuramente un fatto positivo.
Che non si abbia l’impressione che voglia strumentalizzare la tragedia di quanto accaduto, la morte di un ragazzo, la cattura di Gaia e la separazione dai suoi cuccioli, che vorrei soltanto veder ricongiungersi a lei, liberi nei boschi in cui sono nati. La mia è una riflessione sull’eco mediatica che c’è stata. Il fatto ignobile della sua cattura purtroppo è avvenuto, ma che almeno ci si sollevi in sua difesa, per lei e per tutti gli altri animali che nessuno di noi attivisti mai dimentica. Che almeno si riprenda a marciare insieme e a pensare strategie efficaci che possano rivoluzionare la cultura e società speciste ed escludenti verso chiunque altro sia considerato diverso, non conforme, come un animale. Che essere definiti animali non sia più considerata un’offesa, ma una descrizione di quel che siamo tutti, oltre la specie.
Rita Ciatti
per Progetto Vivere Vegan