Cani selezionati per essere più mortali dei fucili, destinati a una vita di patimenti e sfruttamento. Scartati quando non rispondono alle aspettative del “padrone”, i social si riempiono di appelli per cercare loro una casa e restituirgli dignità.
Prendo spunto dal manuale “Cani: guida illustrata a tutte le razze” di Derek Hall. Lo sfoglio e mi sembra di osservare un catalogo da cui scegliere il prodotto giusto per me. In realtà si tratta di cani, quegli esseri viventi che almeno in Occidente sono considerati “i migliori amici dell’uomo”. Un pensiero si affaccia alla mia mente: figuriamoci cosa succede a quelli che non sono amici o addirittura a quelli considerati nemici, come gli orsi rinchiusi al Casteller o i lupi… se questo è il trattamento che riserviamo al nostro migliore amico, i non amici e i nemici devono davvero cominciare a tremare, e infatti tremano, rinchiusi in gabbie e allevamenti sovraffollati e crudeli, uccisi senza troppa pietà, vivisezionati per “il bene dell’umanità”.
Ma adesso voglio soffermarmi su un particolare gruppo di razze canine e sul loro triste destino: quelle selezionate dall’uomo per essere accompagnato e coadiuvato nella mattanza senza senso che è la caccia.
Macchine per uccidere
Il manuale riporta che le razze “di cani da caccia classificate dalla FCI (Federazione Cinologica Internazionale) e dall’ENCI (Ente Nazionale Cinofili Italiani)” sono il gruppo 10-Levrieri; il gruppo 6-Segugi e cani da pista di sangue (brividi), Cani da Ferma; il gruppo 5-Cani tipo Spitz e di tipo Primitivo e il gruppo 8-Cani da Cerca, da Riporto e da Acqua. In tali gruppi rientrano le razze più note come i Retriever, Labrador e Golden che sono Cani da acqua, i vari tipi di Levrieri nella loro eleganza, come il Galgo usato per la caccia in Spagna, i Segugi di vario tipo con i loro lunghi nasi e le loro lunghe orecchie (Cani da Pista), i Setter (Cani da Ferma) e i Pointer (Cani da Punta) ma anche i Bassotti, selezionati per la caccia ai piccoli mammiferi da tana, gli Spinoni e i Beagle.
Il cane da caccia ha tutta una serie di caratteristiche fisiche e motivazionali selezionate dagli esseri umani proprio per aiutarli in questa attività: il Segugio ad esempio ha un lungo naso appuntito proprio per potenziare le sue capacità olfattive, già estremamente sviluppate nel cane, in modo da seguire le tracce odorose della preda e portare il suo cacciatore presso di essa per poterla uccidere. L’assetto motivazionale selezionato in questa razza è rivolto al seguire la traccia senza lasciarsi distrarre da niente altro. Una perfetta “macchina per uccidere”, insomma, questo nella mentalità di chi uccide per divertimento e di chi è rimasto ai tempi del filosofo Cartesio, che considerava gli animali solo res extensa, cioè un semplice corpo, un semplice ingranaggio di automatismi biologici.
Ovviamente per gli esseri viventi non è così, perché il pregiudizio dell’animale-oggetto è soltanto un mito, una credenza che serve all’essere umano come autorizzazione morale per utilizzarlo per i propri scopi.
La realtà è molto più complessa di così e si possono avere due casi, con i cani da caccia: che la “macchina per uccidere” funzioni oppure che non funzioni (che non funzioni più o che non abbia mai funzionato). In entrambi i casi il destino dei cani da caccia è quasi sempre triste e crudele, vediamo perché.
“Macchine” che funzionano
Quando i cani da caccia assolvono bene al loro compito, spesso e volentieri vivono reclusi in recinti sudici e angusti, dove passano la maggior parte del tempo caldo dell’estate e gelido dell’inverno, liberati solo per la battuta di caccia. Nelle campagne toscane basta fare una passeggiata in qualche stradina secondaria che finisci per imbatterti in uno di questi orribili canili e devi ascoltare impotente gli abbai disperati dei reclusi.
Grazie alla credenza che più sono affamati più sono efficienti nella caccia, a volte non vengono nutriti a sufficienza. Nella caccia al cinghiale poi soprattutto i Segugi vengono lanciati contro la vittima che difendendosi spesso li sbrana. Più di un veterinario si è ritrovato a cucire ferite terribili in questi animali e molti di loro trovano così la morte. Ma tanto basta tirare fuori il denaro e comprarne qualcun altro nelle miriadi di allevamenti-lager della zona, sostituendo così la vittima, tanto un cane vale l’altro, come un fucile vale l’altro, anzi forse il fucile queste persone lo tengono meglio dei cani, con più cura e amore.
“Macchine” che non funzionano
Ma che succede quando un cane da caccia non è adatto perché magari ha paura degli spari o è interessato solo alla “caccia” alle lucertole? O perché si è ammalato o è semplicemente invecchiato? La risposta la troviamo purtroppo facilmente: basta entrare in un qualsiasi canile, da Nord a Sud, e valutare quanti cani da caccia ci sono rinchiusi. Tutte “macchine difettose”. Questi cani vengono in genere abbandonati nei boschi, a volte legati a catena a un albero, impedendogli anche l’unica possibilità di salvezza nel cercare aiuto. Il loro destino è l’accalappiamento e il canile, sperando che sia un buon canile, ovvero un posto dove almeno vengono curati. Devono subire l’abbandono come oggetti inutili e la reclusione con migliaia di altri sfortunati come loro.
Facebook è piena di pagine che pubblicano storie e appelli riguardanti queste razze da caccia, per trovare loro una famiglia che li adotti e che gli dia una possibilità di una vita dignitosa.
Si tratta spesso di cani vecchi, ciechi, ammalati di leishmaniosi, una terribile malattia infettiva che se non curata in tempo porta alla morte per insufficienza renale, trovati a vagare per strada, stremati e affamati. Le pagine sono davvero tante, a testimonianza di come il fenomeno sia di vaste proporzioni.
Conseguenze della reificazione
Questi animali considerati alla stregua di fucili hanno in realtà una storia, perché ciò che l’essere umano, soprattutto quello disposto a uccidere per divertimento, non riesce a capire è che ogni forma di vita porta in sé la soggettività, intesa come “capacità di trasformare la datità della situazione in un campo semantico o di significato-per sé” (Roberto Marchesini, “Etologia Filosofica”) ovvero la capacità di dare senso e significato per quell’individuo alle proprie dotazioni specie-specifiche.
Tutti gli animali danno un senso a ciò che hanno e a ciò che agiscono. Un concetto difficile da accettare perché porrebbe un problema morale: un conto è sfruttare e uccidere una “macchina biologica” senza res cogitans, sempre per citare Cartesio, cioè senza anima, un conto è sfruttare e uccidere un essere vivente dotato di soggettività. Diventeremmo mostri ai nostri stessi occhi.
Ma le storie vere parlano da sole, più di tanti discorsi filosofici.
Marianna, una setter inglese, e Giulia, una segugia, arrivano al rifugio. Età imprecisata. Magre scheletriche. Malate entrambe di leishmaniosi. L’associazione che le ha prese in cura si attiva per curarle. Giulia non mangia, viene portata in stallo da una volontaria. Purtroppo la malattia non curata ha attaccato pesantemente i reni. Giulia muore, nonostante adesso sia al sicuro, ma è troppo tardi. Marianna ha le piaghe e zone estese senza pelo ma i reni sono in condizioni migliori. Inizia la cura, mette su peso, mangia il suo cibo con appetito e ha tanta voglia di vivere. E’ sempre pronta a dare e ricevere coccole e amore, la sua coda si muove instancabilmente. Nonostante le sofferenze patite è pronta a ricominciare a dare amore. Anche a quell’essere umano nonostante alcuni suoi membri l’abbiano ridotta così.
Marianna non è una macchina. Marianna è una persona capace di amore e perdono. Magari la mia specie fosse come la sua.
Francesca Decandia
Progetto Vivere Vegan