L’allevamento cosiddetto sostenibile – definito etico, biologico, estensivo – volto a edulcorare la facciata dello sfruttamento, inganna due volte: i consumatori e gli animali.
Benessere degli animali o delle tasche degli allevatori?
L’inganno nei confronti dei consumatori è abbastanza complesso ed è legato al concetto di benessere animale.
Per benessere animale si intende un apparato normativo concepito all’interno dell’industria zootecnica, quindi all’interno di una cornice specista, che dovrebbe tutelare appunto la salute e il benessere degli animali. Animali a cui da una parte si riconosce la capacità di sentire, soffrire, provare dolore e piacere, ma a cui dall’altra continua a venire negata la possibilità di essere pienamente soggetti della loro stessa vita e di esprimere e soddisfare gli interessi relativi alla loro specie, non solo da un punto di vista fisico, ma anche psicologico ed etologico e che, soprattutto, verranno comunque mandati al mattatoio quando il costo del loro mantenimento in vita supererà quello del valore del loro corpo stabilito dal mercato.
Per l’industria zootecnica – che come tale è un’industria finalizzata al profitto e che quindi concepisce gli animali come risorse rinnovabili da far nascere in continuazione per poterli trasformare in prodotti o per poterli usare come macchine da e per (da latte, per le uova, per la lana, per il miele) – ciò che conta è infatti tenere in vita gli animali quel tanto che basta per poterne trarre un utile economico. Quindi il benessere animale non è inteso come vero benessere in grado di far fronte a tutte le esigenze dei singoli individui nella loro complessità (e che come tali presentano anche caratteristiche comportamentali individuali, oltre ciò che li accomuna come specie), ma come minimo indispensabile a farli sopravvivere: fornirgli cibo, un riparo ed evitare che muoiano anzitempo di aver prodotto quello che dovevano produrre, che sia il raggiungimento del peso ottimale per essere macellati o la quantità minima prevista di latte e uova, lana o miele per non far andare in perdita l’allevatore.
Gli individui che si ammalano vengono curati solo se il costo delle medicine non supera il valore stabilito dell’animale. Altrimenti vengono soppressi o semplicemente lasciati morire (a volte anche sopprimerli e poi smaltirne le carcasse ha un costo che per l’allevatore non è sostenibile economicamente). Per allevamento sostenibile infatti si intende che sia soprattutto sopportabile.
Ah, certo, con il termine si vuole intendere anche la sostenibilità da un punto di vista ambientale, ma questo è un argomento indiretto in cui gli animali sono considerati alla stregua di agenti inquinanti; peraltro è un argomento cui già da un po’ si cerca di ovviare proponendo alternative meno impattanti sull’ambiente: allevamenti idroponici di pesci sono una realtà (vedasi allevamenti di salmoni in vasconi di cemento) e si sta spingendo anche per il consumo di insetti. In questi discorsi ovviamente non si combatte lo specismo, anzi, lo si rafforza poiché non si mette in discussione l’allevamento, ma solo le diverse modalità. Al limite cambiano le specie allevate, ma da un punto di vista antispecista non cambia nulla.
Tutela della salute. Ma di chi?
Si tutela inoltre la salute, ma del consumatore (oltre che del reddito dell’allevatore): ossia l’allevamento cosiddetto sostenibile mira all’ottenimento di un prodotto che sia anzitutto salubre, non contaminato da ormoni o antibiotici o da OGM. Il cibo somministrato agli animali è infatti biologico, cioè non è mais, soia o mix di farine modificate geneticamente.
Nelle diciture che accompagnano la narrazione (dico narrazione perché è un vero racconto ideologico che vien fatto) degli allevamenti sostenibili spesso si legge anche che gli animali pascolano all’aperto, godono dell’aria di montagna o di collina ecc. Talvolta tali definizioni sono accompagnate da immagini bucoliche di mucche nei verdi pascoli o di galline che razzolano sui prati pieni di fiori.
Immagini che talvolta fanno effettivamente riferimento alla realtà, ma una realtà di cui si racconta solo una parte e che, seppur con belle parole, continua a rafforzare l’idea specista degli animali al nostro servizio, il cui valore è funzionale al profitto e all’utilità che essi hanno per noi.
Non si racconta ovviamente l’inevitabile fine al mattatoio, né la violenza della domesticazione. Nessun individuo nasce addomesticato, nemmeno le capre, le pecore, le mucche: per quanto animali tendenzialmente miti e selezionati nei secoli con determinate caratteristiche – veri e propri programmi di eugenetica -, se mostrano ubbidienza all’allevatore mettendosi in fila per essere munte, ad esempio, o accorrendo al richiamo convenuto per entrare nelle stalle è perché altrimenti vengono picchiate. Dipendono dalla mano che le nutre, non hanno scelta, non possono fare altrimenti.
L’immagine bucolica delle miti mucche al pascolo, nasconde la violenza di secoli di domesticazione e di interventi sui loro corpi.
“Il buon latte fresco biologico” che arriva sulle tavole di consumatori in parte ignari (in parte consapevoli, ma soddisfatti di credere alla menzogna, quasi fosse un vero e proprio atto di fede: “voglio credere che gli animali siano trattati bene”) nasconde la brutalità dell’uccisione dei cuccioli cui altrimenti sarebbe dovuto essere destinato (in un mondo più giusto, diciamo, dove gli animali sarebbero soggetti della loro stessa vita e non in funzione delle nostre abitudini alimentari).
Consumatori ingannati
I consumatori sono ingannati (o autoingannati) poiché indotti a credere alla favoletta del buon allevatore che rispetta e ama i suoi animali. Questo inganno da una parte li rassicura, dall’altra rafforza le credenze e il sistema di valori che fanno capo all’ideologia specista. Invisibile poiché normalizzata e naturalizzata; invisibile come la parte oscura di ogni allevamento che è il mattatoio, oltre alla manipolazione corporea e allo sfruttamento.
Animali traditi
Il secondo inganno, e infinitamente più grave, è ovviamente quello effettuato nei confronti degli animali. Si tratta di un vero e proprio tradimento della loro fiducia.
Immaginate questi animali cui viene concesso di assaporare un minimo il piacere di esistere, di fare esperienza dei pascoli, dell’aria fresca, del sole, di intessere relazioni con i loro simili.
In molte piccole realtà, l’allevatore o l’allevatrice dà loro un nome, li chiama, li riconosce uno ad uno e magari – in uno stato di dissociazione cognitiva – li accarezza anche e ci gioca.
Non ho dubbi sulla sincerità di alcuni (non tutti) allevatori o allevatrici (negli ultimi anni è aumentato il numero delle donne pastore, per esempio) quando dichiarano di amare le capre, le mucche, le pecore, le galline o altri animali che allevano.
Si tratta però di un amore concettualizzato entro un preciso sistema di valori, quello specista, appunto, che concepisce gli altri animali come esseri al nostro servizio, inferiori, da usare e mercificare per i nostri interessi.
Questi animali si fidano. Temono, ma si affezionano anche alla mano che li nutre, allo stesso modo in cui un prigioniero vittima della Sindrome di Stoccolma potrebbe arrivare ad amare il proprio aguzzino, in una distorsione di pensiero data dalla prigionia, dalla violenza e trauma subiti.
Tutti gli animali addomesticati sono vittime di traumi.
In questa fiducia distorta che talvolta provano verso l’allevatore vengono infine traditi: condotti al mattatoio e strappati alla vita nel pieno del loro vigore, della loro esistenza.
Questa mattina ho visto un video molto carino, cioè che sembrava carino, fino a che, approfondendo, non ne ho scoperto la provenienza: una voce femminile fuori campo dà il buongiorno ad alcuni maiali. Questi si svegliano, sollevano i musetti che uno ad uno emergono dalla paglia sotto cui si erano riparati dal freddo della notte, si mettono in piedi e, tutti contenti, agitando le codine, si dirigono verso la voce umana. Una scena che immagino chiunque conviva con un gatto o un cane avrà vissuto migliaia di volte. La scena di una manifestazione di affetto reciproca.
Eppure quei maiali esistono in funzione del profitto delle loro carni. Un giorno, quella stessa voce gentile, li chiamerà per farli salire sul camion che li porterà al mattatoio.
Ecco, immaginate se doveste farlo al cane o gatto con cui convivete.
Non sarebbe un terribile tradimento?
Gli allevamenti sostenibili cosa sono dunque, cosa sostengono realmente? Menzogne, inganni, sistema di valori specista che concepisce gli altri animali sempre in virtù di un utile economico, e che quindi ne nega lo status di individui. Al netto di carezze e prati verdi loro destinati, di aria fresca di montagna e raggi di sole o arricchimenti vari, ogni allevamento è un tradimento dei principi di libertà e rispetto dell’altro.
Allevamento etico è un ossimoro
Quindi nessun allevamento può essere etico, giacché l’etica prevede un riconoscimento dell’altro in quanto individuo, su un piano di parità, soggetto e non oggetto; altrimenti non è relazione etica, ma dominio.
Ribellatevi all’idea che possa esistere un allevamento sostenibile o etico. Siate coerenti. Se davvero volete rispettare gli animali, non mangiateli, né comprate i prodotti della loro schiavitù. Il dominio sui corpi altrui non contempla discorsi sull’etica.
Rita Ciatti
Progetto Vivere Vegan