Molte sono le associazioni di respiro internazionale che stanno lottando per ottenere allevamenti privi di gabbie: “End the cage”. Togliere semplicemente le gabbie ma andare avanti con lo sfruttamento animale ha davvero senso?
Non passa giorno che chi è in contatto con le maggiori associazioni animaliste non si veda arrivare mail o petizioni per campagne contro quella o quell’altra azienda perché smetta di utilizzare ingredienti di origine animale prodotti in allevamenti in cui gli animali sono rinchiusi nelle gabbie.
L’argomento fa molta presa perché la gabbia evoca subito l’immagine della privazione della libertà personale e della sofferenza anche fisica di chi è costretto a vivere in spazi ristretti in cui non può esprimere liberamente i propri comportamenti specie-specifici. Ma è davvero sufficiente togliere questo indubbio strumento di tortura e di prigionia per ottenere una vittoria nell’affermazione dei diritti degli animali non umani?
Allevare senza gabbie
Proviamo a pensare ad un allevamento senza gabbie. E’ davvero un passo avanti come ritiene la maggior parte delle persone che ha a cuore il benessere animale? Indubbiamente è una sofferenza in meno e possiamo capire il ragionamento di quelle associazioni che parlano di piccoli passi per arrivare alla fine dello sfruttamento degli animali: poiché è molto difficile arrivare all’obiettivo di un mondo vegan allora cominciamo dal principio levando una sofferenza alla volta.
Purtroppo la realtà è più complessa: gli allevamenti senza gabbie sono comunque portati avanti in condizioni invivibili per gli animali. Negli allevamenti intensivi migliaia di esemplari sono stipati comunque in piccoli spazi, non vedono la luce del sole e vivono in condizioni di sovraffollamento. Negli allevamenti estensivi vengono cresciuti solo per essere uccisi e sfruttati, spesso maltrattati e confinati in stalle minuscole, senza considerare che comunque, per produrre latte ad esempio, i piccoli vengono lo stesso tolti alle madri e i maschi presto uccisi per poter gustare la loro carne tenera (de gustibus….).
Difficilmente troveremo anche nell’allevamento dello zio Tobia un rispetto e un’attenzione alle reali necessità etologiche degli animali: fare questo comporterebbe dei costi che non produrrebbero guadagni e nessuna azienda si può permettere di spendere soldi per ricavarne soltanto un applauso da parte degli animalisti dei piccoli passi.
Amadori si fa avanti
Per non considerare poi che nel nostro sistema liberista, dove tutto può diventare business a prescindere da ogni considerazione etica, si fa subito avanti chi vede in queste battaglie una possibilità di profitto. Citiamo ad esempio la pubblicità del pollo campese di Amadori, che vive libero e fuori da gabbie e capannoni nell’Allegra Fattoria. Questa pubblicità è esemplare per chi si occupa di antispecismo: anche al di là della sua rispondenza alla realtà, non ci dice che quei polli superstar saranno uccisi per finire inevitabilmente nei nostri piatti e che non sono altro che prodotti che devono rendere, anche in un allevamento privo di gabbie.
Ma certi allevatori sanno benne che attualmente le battaglie si concentrano non sull’eliminazione degli allevamenti ma sull’eliminazione delle gabbie. Nel primo caso per loro sarebbero guai, nel secondo basta buttare i polli qualche ora a razzolare fuori (comunque tutti ammassati, perché più polli = più prodotti = più profitti. La matematica non è un’opinione…) e la gente che ha firmato la petizione “basta gabbie” comprerà i loro petti di pollo sentendosi a posto con la coscienza. Sentendo che così ha “rispettato il benessere animale”.
La risposta vegan
Queste dei piccoli passi assomigliano alle classiche vittorie di Pirro, in cui si crede di avere vinto qualcosa e invece è cambiato poco o nulla. Quelle battaglie che lasciano il sapore amaro in bocca, perché se anche fossero vinte, entrando in un supermercato continueremo comunque a vedere pezzi di cadaveri e di sofferenza negli scaffali in grande quantità. Se tutte le forze fossero concentrate nel chiedere di eliminare definitivamente ogni forma di allevamento, forse la vittoria non sarebbe molto vicina nel tempo ma porterebbe frutti dolci e soprattutto privi del gusto amaro del compromesso.
Per noi la risposta e la battaglia è una e una soltanto: go vegan! La fine delle gabbie allora sarà davvero la fine di ogni sofferenza per gli animali.
Francesca Decandia
Progetto Vivere Vegan