Riflessioni tra le mura di manicomi e prigioni, ovvero come la storia di un internato in un manicomio ha cambiato la mia vita e mi ha portato ai delfinari.
L’inizio
Credo non sia eccessivo dire che, per vari motivi, mi occupo di reclusione da quasi quindici anni. Oggi lo faccio sia come insegnate volontario in carcere che attraverso la pagina Facebook di Zoout, dove racconto quella che riguarda gli animali. Quando ho iniziato, però, l’ho fatto avvicinandomi alla storia di un internato a vita in un manicomio. La vicenda è quella di Nannetti Oreste Fernando che, a causa di un’offesa a pubblico ufficiale, trascorse il resto della sua esistenza nel reparto Ferri dell’ospedale psichiatrico di Volterra. La sentii raccontare per la prima volta mentre frequentavo una scuola di scrittura creativa e mi colpì così tanto che decisi di farne un reportage fotografico e letterario.
La storia di Nof4
In poche parole, Nannetti Oreste Fernando per cercare di sfuggire al terribile destino della reclusione in manicomio, impiegò il suo tempo a incidere un diario visionario sul muro esterno del reparto dove era ricoverato, utilizzando la fibbia del panciotto della divisa da “matto”. La più grande di queste pagine di memorie, in parte visibile tutt’oggi, è lunga 180 metri e alta 2. Racconta, in modo molto enigmatico, della reclusione e dell’infanzia, della storia a lui contemporanea e di un futuro prossimo venturo in cui le astronavi arriveranno e forse lo aiuteranno a evadere. Scrisse inoltre un gran numero di lettere e cartoline a parenti immaginari, firmandosi con le sigle “Nanof”, “Nof” o “Nof4” e definendosi, astronautico ingegnere minerario, colonnello astrale, scassinatore nucleare. Nof erano le inziali del suo nome, mentre 4 era il numero di matricola che gli era stato dato appena entrato in manicomio. Lavorando a questa storia e intervistando numerosi internati sopravvissuti al tempo e ai manicomi, toccai con mano quanto la reclusione potesse essere devastante per la mente di chiunque. Oggi sappiamo, infatti, che molte di quelle persone erano passate da sane a pazze stando tra quelle mura.
Il paradosso dell’infermiere
Alcuni mi raccontarono di come dottori e infermieri fossero convinti di fare del bene tenendoli richiusi. Di come pensassero di essere buoni e gentili, ma non riuscissero a comprendere che, per i malati, essere prigionieri lì dentro fosse il problema più devastante. Tra quelle mura. In manicomio. Fu solo con l’approvazione della legge 180 del 1978, promossa da Franco Basaglia che le cose migliorarono e i così detti “tetti rossi”, finalmente chiusero i battenti.
La libertà che diamo per scontata
Anche se erano cose arcinote, fu illuminante. Ricordo che pensai a quanto, ancora oggi, la reclusione fosse presente nella nostra società sotto varie forme. A quanto le persone facessero fatica a comprendere davvero cosa significasse essere liberi fino a quando la libertà non viene loro tolta. Ovviamente, non era ancora il tempo del Coronavirus che forse (e dico forse!) ci ha aiutato ad avere un’idea meno superficiale in merito.
Oggi siamo più consapevoli di come persino la nostra vita sociale, apparentemente libera, possa cambiare da un momento all’altro. Che tutte le cose che svolgiamo liberamente ogni giorno e che ci sembrano scontate, in realtà non lo sono affatto.
Prigioni per umani e prigioni per animali
Ricordo che, mentre scrivevo il reportage pensai anche a quello che facciamo agli animali. A come privarli della libertà sia una delle cose principali che mettiamo in atto nei loro confronti. Rinchiuderli sembra piacerci. A quel punto fu come se qualcosa fosse definitivamente cambiato in me. La classica “scintilla”. Decisi subito di occuparmi di zoo e delfinari. Se gli zoo, che variano da struttura a struttura, meritano un lungo approfondimento a parte, i delfinari, sono senza dubbio vere prigioni. Qualcuno sostiene che sia un luogo comune, ma probabilmente parla per ignoranza o, peggio ancora, per interesse.
Cos’è un delfinario
Chi non ha mai visitato un delfinario non può capire fino in fondo di cosa si tratta. Sembra difficile da credere, ma è così. Le fotografie, i video, non sono assolutamente in grado di rendere l’idea. E non è un modo di dire. Parlo per esperienza. Prima di vedere da vicino la mia prima vasca, molti anni fa, immaginavo che le dimensioni fossero comunque in qualche modo pensate per rendere sopportabile la vita a questi animali. Invece non è così. Non c’è davvero nulla che possa essere scambiato per qualcosa di vivibile, quando te le trovi davanti. Ho compreso quindi che, non sono le dimensioni a essere in qualche modo compatibili con la vita dei delfini, ma piuttosto i delfini ad avere un’incredibile capacità di adattamento.
Addattarsi alla prigionia
Questi mammiferi dimostrano di essere in grado di sopravvivere anche nelle condizioni più difficili e, in un tempo relativamente breve, la maggior parte di loro, quando non impazzisce, evidentemente, riesce persino a costruirsi una sorta di vita resistente alla reclusione.
In carcere i detenuti fanno lo stesso.
L’esperienza come insegnante in carcere
Da anni insegno e faccio volontariato in una casa circondariale e, se pur parzialmente, ho avuto modo di vedere le reazioni di numerose persone. Nella maggioranza dei casi, dopo i primi drammatici giorni, subentra una fase di rassegnazione che coincide con l’accettazione. Naturalmente molto dipende anche dalla lunghezza della pena da scontare, ma abbastanza di rado capita di vedere qualcuno che, in qualche modo, non cerchi di sopravvivere. E per farlo deve provare a costruirsi una sua “normalità”. Al contrario di quanto si tenda a pensare, in carcere a volte si ride e persino si gioca. La privazione della libertà è così impattante nella vita di un essere vivente che l’unica risposta possibile per non impazzire è riuscire a far buon viso a cattiva sorte. E quando questo non riesce più, purtroppo finisce in tragedia.
Il paradosso dell’addestratore
Parallelamente, l’idea che il gioco sia sufficiente a dimostrare il benessere, è proprio una delle cose che sostengono gli addestratori per legittimare i delfinari: “I delfini qui da noi giocano e si divertono, come possono star male?”, mi hanno detto più volte. D’altra parte gli addestratori di certo non odiano i delfini, anzi, spesso si sentono come investiti di una “missione salvifica”, tanto da arrivare a sostenere che nei delfinari “i delfini sono al sicuro e non corrono i rischi che corrono i natura!” Ecco. Il paradosso dell’infermiere di cui parlavo sopra, diventa qui il paradosso dell’addestratore.
Ma come stanno le cose?
Molto più realisticamente, probabilmente i delfini giocano non solo perché “costretti” (gli spettacoli hanno comunque orari ben precisi) ma anche perché, proprio come i detenuti, devono in qualche modo cercare di sfuggire alla noia. Probabilmente, per spirito di sopravvivenza, riescono quindi a nascondere in qualche parte del loro cervello, ciò che significa nuotare liberi in mare e si adattano a passare il tempo lanciando fuori dall’acqua una palla di gomma. Non dimentichiamo che una vasca di queste strutture mediamente è lunga circa 50 metri e che un delfino, in natura, ogni giorno percorre circa 30 km. Non sono sufficienti questi numeri per rendersi conto di cosa stiamo parlando?!
Il sonno dei delfini
Nella vasca, tutta in cemento e solo con qualche pallone galleggiante come divertimento, principalmente il delfino dorme. Questi mammiferi, quando non sono impegnati nei numeri degli spettacoli per il pubblico, attivano quasi sempre il “sonno a onde lente”, così chiamato perché, durante il riposo, solo uno dei due emisferi del cervello perde coscienza, mentre l’altro funziona regolarmente. I visitatori dei delfinari quindi, non possono neppure accorgersene. Per loro i delfini stanno semplicemente nuotando. In carcere vige una regola non scritta che tutti rispettano e che recita più o meno così: “Quando un detenuto dorme, non svegliarlo perché il suo tempo sta passando più rapidamente”. Chissà, forse i delfini pensano lo stesso. Di certo, è insopportabilmente triste pensare che questi animali non vedranno mai più il mare e che saranno costretti ad accettare gli orari imposti dagli addestratori per ogni giorno della loro vita, orari che finiranno per renderli sempre più simili a marionette che si muovono a comando.
Cosa ci sfugge?
Ma allora perché in così tanti non riescono a comprendere queste cose? Perché ancora visitano i delfinari? Sinceramente non credo che ci sia una risposta unica. Di sicuro molte persone lo fanno perché non riescono a vedere null’altro che dei delfini felici. Altri forse non riflettono su cosa significa “per sempre” e altri ancora non si pongono il problema. Eppure chiunque, ne sono certo, se si soffermasse anche un solo minuto a riflettere su cosa significa “per sempre rinchiusi tra quelle mura di cemento”, non potrebbe che definirsi contrario a questa realtà.
I delfinari in Italia
In Italia i delfinari che, al momento, detengono questi cetacei sono tre: Oltremare di Riccione, l’Acquario di Genova (entrambe di Gruppo Costa Edutaintment, già proprietario di numerosi acquari in Italia e all’estero) e Zoomarine a Roma (da poco acquisito dalla multinazionale Dolphin Discovery, proprietaria di una ventina di delfinari tra Caraibi e Sud America).
Fino al 2014 erano sei.
Per motivi differenti l’ex delfinario di Rimini, il delfinario dello zoo di Fasano e quello di Gardaland hanno cessato le attività. Questo è senza dubbio un dato positivo che rispecchia una crescente sensibilità delle persone, anche se, va detto, i numeri non sono certo miracolosi.
Basti pensare che nel 2019 Zoomarine ha quasi raggiunto il milione di visitatori l’anno. Ancora quindi c’è molto da fare.
Nella speranza che un giorno arrivi un Franco Basaglia e una legge 180 anche per i delfini.
Francesco Cortonesi
Progetto Vivere Vegan
Nota: Parte di questo articolo è già comparso sulla rivista “Illustrati – #Marenostrum” edita da Logos Edizioni