19 gennaio 2017. La notizia del vitello scappato dal mattatoio di San Giovanni Valdarno (Ar), che dopo una breve fuga verso la libertà è stato ucciso con una fucilata da un vigile urbano autorizzato dal sindaco, ha toccato nel profondo i sentimenti di tante persone.
Perché tanta commozione e indignazione per lui e non per i suoi compagni che invece sono stati “regolarmente” uccisi come succede ogni giorno a milioni di esseri senzienti nei macelli? In fila, uno dietro l’altro, con le zampe sporche del sangue di chi li ha preceduti e consapevoli, anche per questo, di aspettare il proprio turno, il momento di una morte violenta già decisa da chi li ha fatti nascere.
Sono notizie dolorose, ma che possono aiutarci a riflettere. Perché la ribellione di un solo animale al suo destino può aprire i nostri occhi su quelle routine invisibili e atroci degli allevamenti e della macellazione che la nostra mente inconsapevolmente rifiuta.
Chi ha sperato che la corsa del vitello nelle campagne valdarnesi finisse con la sua libertà non può fare a meno di chiedersi perché. Perché si è commosso e ha “tifato” per lui anche se poi non riesce a riconoscerlo nel proprio piatto. Quella carne, che molti mangiano con tanto piacere e senza farsi troppe domande, altro non è che un pezzo del corpo di un animale indifeso che avrebbe voluto essere libero.