L’idea che l’allevamento estensivo sia più “umano” rispetto a quello intensivo va per la maggiore ma ha davvero poco fondamento. Vediamo perchè.
Non è una novità che chi voglia consumare cibo animale si ponga a volte il problema del tipo di allevamento, come se il metodo facesse una differenza sostanziale per l’animale, rendendo quindi il cibo più o meno “etico.”
Invece le differenze non sono assolutamente sostanziali e anzi, forse la tecnica cosiddetta estensiva e quindi in teoria più rispettosa dell’etogramma dell’animale, può creare negli allevatori e negli operatori coinvolti un atteggiamento specista molto più radicato che negli imprenditori di zootecnia intensiva.
La principale differenza
L’aspetto che maggiormente imprime nel consumatore l’idea che l’allevamento “della porta accanto” sia più eticamente sostenibile, viene dal fatto che prima di essere macellati gli animali generalmente vivono una parte del tempo, fuori da gabbie e capannoni, il che suggerisce una maggiore tutela del benessere animale. Molte associazioni di caratura nazionale e internazionale infatti concentrano i loro sforzi nel combattere e denunciare la crudeltà solo negli allevamenti cosiddetti intensivi, dove vige il principio aziendale della massimizzazione del profitto, che si ottiene aumentando i ricavi, quindi allevando centinaia di capi di bestiame, e diminuendo i costi, riducendo gli spazi occupati e automatizzando il più possibile le operazioni di produzione.
Questo comporta sovraffollamento e gabbie per gli animali allevati, stipati in piccoli spazi, privati così del loro diritto di esperire il loro repertorio comportamentale, trattati già come prodotti pur essendo ancora in vita.
L’allevamento estensivo invece permette all’animale di vivere in condizioni un po’ meno lontano dal suo etogramma e questo basta a molti per continuare a consumare carne, latticini e uova, cancellando ogni traccia di senso di colpa. Alcune aziende stanno cavalcando la tendenza, come sempre accade nel meccanismo economico, proponendo allevamenti di polli “allevati all’aperto”, come Amadori, o mucche con l’idromassaggio nelle pubblicità dei formaggi Soresina. Indubbiamente ottime idee per vendere di più e aumentare i ricavi.
Ma veramente possiamo credere che sia una vita accettabile per un essere vivente ?
Lo specismo dietro all’allevamento estensivo
In realtà per alcuni aspetti l’allevamento estensivo è peggiore di quello intensivo. Anni fa lavoravo all’Istituto Agrario di Siena, la mia città, e ricordo ancora il periodo in cui con la terza classe di enologia andavamo in azienda a raccogliere le olive. Io mi confondevo con gli studenti raccogliendo con loro e potendo ascoltare le discussioni. Ricordo che nella pausa, davanti a una grigliata di salsicce alla brace, uno di loro parlava di come ammazzava il maiale nell’azienda di famiglia. Ne descriveva l’accerchiamento, le urla dell’animale terrorizzato e lo sgozzamento, con il sangue che ne derivava, come se parlasse di bere un drink all’aperitivo. Come raccontasse un’avventura magnifica che faceva di lui un uomo. Lo specismo era talmente radicato in un giovane ragazzo cresciuto in mezzo alle uccisioni cruente degli animali da non fargli minimamente provare a mettersi nei panni di quegli animali che urlavano terrorizzati. Lui non sentiva niente per loro, anzi ne parlava come di esseri ridicoli, solo dei maiali, che di fronte alla violenza sono così poco “maschi” da gridare come “femminucce”. Questo atteggiamento è presente in tutti i piccoli allevamenti “da allegra fattoria”.
Un altro mio incontro è stato con una piccola produttrice di formaggio di capra, una donna molto dinamica e interessata all’antroposofia di Rudolph Steiner. La signora mi disse con serafica soddisfazione che il capretto lo uccideva lei con le sue stesse mani, essendo necessario anche negli allevamenti estensivi sopprimere il cucciolo per produrre formaggio. Come se si trattasse di ordinaria amministrazione. Mi vengono in mente alcuni giovani che, disgustati dal loro lavoro negli allevamenti intensivi, hanno dato il via alle investigazioni condotte da molte associazioni internazionali: questo disgusto nei piccoli allevatori non c’è, anzi c’è la sensazione di onnipotenza che deriva dalla possibilità di compiere uccisioni autorizzate e impunite.
Ovviamente noi antispecisti riteniamo che un animale, a prescindere da come vive la sua vita, abbia diritto a viverla per sé stesso e non per finire nei nostri piatti o nei nostri abiti. Crediamo che una persona non umana sia appunto una persona e non un alimento per la nostra specie, che oltretutto non è una specie predatrice per natura. Se cominciassimo tutti a vedere gli animali non umani come persone, il punto di vista sulle cose cambierebbe radicalmente. I miti da sfatare però vanno sfatati, perché creano giustificazioni a comportamenti della nostra specie che ci impediscono di arrivare a una vera consapevolezza.
La Tecnica alla base dell’allevamento intensivo
In realtà, come dice il filosofo Umberto Galimberti, la nostra è l’età della Tecnica, in cui l’unico obiettivo è l’efficienza per raggiungere un risultato e la razionalizzazione massima delle risorse. L’etica è del tutto secondaria nella visione della Tecnica. L’unica cosa che conta è il risultato. La tecnica è eseguita da macchine che operano in maniera incessante e senza farsi nessuna domanda. E’ proprio la mentalità Tecnica che offre il presupposto filosofico all’allevamento intensivo, dove essa si sposa con le esigenze dell’Economia, cancellando ogni considerazione di rispetto per le forme viventi con cui ha a che fare. La Tecnica non fa calcoli di tipo etico ma solo di tipo matematico, essa ragiona non per sentimenti ma per algoritmi.
Il risultato è l’allevamento intensivo, uno dei molteplici esempi di oscuramento del pensiero di fronte al raggiungimento del miglior risultato possibile. Il filosofo Gunther Anders (L’uomo è antiquato, vol 1) ci ricorda che l’essere mano prova una sorta di invidia prometeica per la sua creatura, cioè la macchina, cercando di assomigliarle il più possibile e di resettare i sentimenti in vista della massima efficienza. Questo sistema di pensiero non è solo materia di testi filosofici, ma è ciò che sta dietro a come abbiamo organizzato le nostre vite, compreso il modo in cui alleviamo gli animali.
Nell’allevamento intensivo la mostruosità dell’età della Tecnica diventa evidente. Ma la distanza tra gli operatori e il loro agire permette loro quello spazio di riflessione e di disgusto per ciò che stanno facendo che l’allevamento estensivo non permette, poiché il rapporto con l’animale è concepito ab ovo come rapporto di sfruttamento, dominanza e sottomissione, dove la soppressione di vite innocenti diventa una routine quotidiana, dove un giovane uomo in formazione, come lo studente dell’Istituto Agrario di Siena, impara a sentirsi Uomo proprio nel sopprimere una vita innocente. Forse su questo aspetto non si medita abbastanza.
Francesca Decandia
Progetto Vivere Vegan