Uccidere per sport
“Tragedia nel bosco: cacciatore spara ad un cinghiale ma colpisce e uccide un anziano”.
Per quanto non ci si possano aspettare notizie confortanti dalle zone di caccia, dove, con armamentario da missione bellica, c’è chi va a braccare, ferire, uccidere esseri senzienti, il bollettino delle ultime settimane non può non lasciare esterefatti: prescindendo per un momento dalle vittime designate, gli animali, dall’inizio della “stagione venatoria” (si chiama così!) morti e feriti umani occupano cronache quotidiane: per il fuoco amico, che colpisce i compagni, per quello amicissimo, sbadatamente diretto contro il proprio piede o la propria spalla, e per quello per nulla amico per cui a caderne vittima sono gli altri, i passanti casuali. Tra questi ultimi trovano posto persone impallinate perché scambiate per fagiani; altri così mimetizzati da suggerire la presenza di un cinghiale, talmente desiderata da allucinarla nel pensiero; ci sono bambini colpiti mentre giocavano in cortile; braccianti impegnati nella raccolta di kiwi, atterrati l’uno dopo l’altro come birilli; volontari alla ricerca di una bambina autistica scomparsa raggiunti da colpi di cacciatori infastiditi dalla loro importuna presenza.
Ci sono altri bambini nel ruolo di discepoli portati con sé per un precoce imprinting, aggirando spensieratamente non solo norme di legge ma soprattutto minimale senso di responsabilità genitoriale; e ci sono i danni collaterali, accidenti imprescindibili di ogni guerra che si rispetti, che, nella forma di infarto o grave malore, colpiscono cacciatori di solito un po’ agé, il cui fisico, ahimè, come per altro in tante cose della vita, non sostiene debitamente una inalterata passione dei sensi.
” Malore mentre è nel capanno, muore cacciatore di 65 anni”.
Insomma i dieci morti e i circa 25 feriti umani, che sono il bilancio in continuo aggiornamento di questo inizio “stagione”, meriterebbero un interesse di cui non si vede traccia nelle istituzioni: la caccia non solo non si tocca, costi quel che costi, ma continua a godere imperterrita delle sovvenzioni destinate agli sport, perché tale è considerata; incredibilmente non solo in base ad un barlume di senso etico per cui non vi può essere nulla di sportivo, nel senso di leale, corretto e rispettoso, nell’andare ad uccidere esseri indifesi, ma neppure volendosi attenere alla definizione letterale di “sport” data dalla Commission of the European Communities WHITE PAPER ON SPORT (luglio 2007), fatta propria dal CONI, secondo cui il termine si riferisce a “qualsiasi attività fisica che abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli”.
Le “relazioni sociali” e le “condizioni fisiche” così care all’attività venatoria sono quelle di cui sopra, che, per imperizia, imprudenza, superficialità, incompetenza, discontrollo emotivo, deliri di onnipotenza, dato l’accesso, per certificata idoneità psicofisica, al fucile caricato a pallettoni, comportano l’evenienza che tali relazioni risultino mortifere, quindi non esattamente in fase di implementazione e sviluppo come vorrebbe l’autorevole libro bianco: non esiste stagione di caccia che non si concluda con decine di morti e un numero di gran lunga superiore di feriti [1]: il chè testimonia la natura niente affatto accidentale delle vittime umane, che sono invece intrinseche alle dinamiche venatorie.
“Abbattuti 59 caprioli nel primo giorno di caccia”.
Quanto alle condizioni psichiche, beh il discorso, nella sua complessità, risulta quanto mai interessante. A partire dalla considerazione che la caccia, per gli occidentali, è attività di svago e fonte di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci; le motivazioni reali che ne sono alla base sono offerte generosamente dai diretti interessati, i cacciatori, i quali, nei loro siti, la celebrano in estasi con espressioni che diventano mantra: palpitante avventura, eccitazione, magia, ardore, passione, ebbrezza, euforia: se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’autoriconoscimento di emozioni e stati d’animo. Per calare i discorsi nell’attualità, è di questi giorni la notizia che Zlatan Ibrahimovic un po’ annoiato nell’attesa di una chiamata del Milan, sia “volato in Turchia per dedicarsi a quella che è la sua più grande passione dopo il calcio: la caccia”. Nella speranza che la chiamata arrivi quanto prima, ci si può rallegrare che nella sua vita ci sia una cosa, anche se una sola, che lo appassiona più dell’uccidere animali.
Temendo comunque di trovare ben poca condivisione al di fuori della loro rassicurante e autoreferenziale cerchia e ben sapendo di quanto la loro passione da una fiumana in crescita di detrattori venga connotata come pesante disvalore anziché estasi mistica, i cacciatori fanno poi seguire giustificazioni ideali, riferite all’ amore per la natura, al dovere di civiltà e alla missione ecologica di cui si sentono portatori: il tutto sintetizzato nel concetto di “caccia buona”, distorsione linguistica al servizio della mistificazione della realtà, a cui, dal momento che la guerra può essere preventiva o di difesa e l’amore può essere criminale, ci sarà sempre qualcuno disposto a credere o a fingere di farlo.
“Il piccolo rinoceronte chiama la mamma uccisa dai bracconieri”
La difesa ad oltranza della loro attività suggerisce ai cacciatori di bypassare prudentemente il punto di vista delle vittime : grandi assenti, nelle loro descrizioni, sono gli animali, il loro terrore, la disperata fuga per la salvezza, il ferimento, gli spasmi, l’agonia talvolta interminabile, la disperazione di cuccioli vicino alle madri morte, l’annichilimento delle madri davanti al corpo immobile dei figli. Assenti sono “il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime” (Montaigne); la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di cordoglio (Tolstoj). Quelli che ansimano increduli nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni.
E’ un guardiacaccia, Giancarlo Ferron[2], che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni, che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini. Nessun animale, lo sappiamo bene, può sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, che siano elefanti o uccellini di pochi grammi: “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito santo”, sentenzia un bambino nel colorito spirito napoletano[3], che bene compendia l’impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, che volino, corrano, che siano miti o aggressivi: purchè respirino.
La descrizione degli “annessi e connessi” dell’attività venatoria può sfidare per tasso di crudeltà quella che trasuda dai tanti musei della tortura, sparsi nelle nostre città, a imperitura testimonianza della profondità del male che l’essere umano sa creativamente produrre: ci sono uccellini impigliati nelle reti, quelli accecati così da richiamare con il canto i loro consimili; quelli ingabbiati per il medesimo scopo ; c’è l’infierire ignobile contro animali spossati dalla migrazione o dallo sforzo di sopravvivere a inondazioni, terremoti o altre calamità. Addestrare i cani ad estrarre a morsi animali dalle tane per sparargli addosso è attività per la cui connotazione il linguaggio non dispone di aggettivi appropriati ; non ne dispone per definire il piacere di uccidere orsi in letargo; oppure elefanti o leoni dal sedile di un elicottero; ulteriori perversioni, già diffuse in altri continenti, tra cui quella di sparare ad animali esotici, intrappolati in stretti recinti (canned hunts è l’espressione usata) dopo la dismissione da circhi e zoo o cresciuti come pet una volta sottratti da neonati alle madri, non sono ad oggi penetrate nel nostro territorio. Ma non c’è da preoccuparsi: basta spostarsi, perché il turismo venatorio supplisce generosamente a questo fastidioso limite, basta pagare, dal momento che i capi uccisi devono giustamente essere remunerati con generosità ai legittimi proprietari.
Un discorso a parte meriterebbero poi altre vittime animali, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso: le cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei, della detenzione in gabbie che sono prigioni per tutto il tempo non destinato alle battute, di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio. A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (“la famosa frustata” dice, dando bene l’idea della sua diffusione), metodo di addestramento da cui lei però si vanta di smarcarsi.[4] Ora, oltre a spietatezza, soprusi, crudeltà, esplode in tutto il meccanismo venatorio un ancestrale bisogno di sangue, che spesso esonda in un crescendo di esaltazione, in un delirio fuori controllo, che lascia sul terreno vere e proprie carneficine: non basta mai, tanto che leggi pur tanto permissive, al servizio di una più che compiacente politica, devono porre dei limiti al tempo del cacciare e al numero delle vittime da uccidere, supplendo con le restrizioni normative all’assenza di quelle etiche.
Non a caso, il parallelismo tra caccia e guerra è stato colto in ogni epoca, essendo l’una e l’altra attività connesse dalla stessa essenza basata su uccisioni di massa: la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata della guerra[5], un sostituto ugualmente sanguinario, ma tanto più rassicurante vista la sproporzione delle forze in campo, nonchè la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo, cercano solo di fuggire. Se la causa più profonda della reiterazione delle guerre, come diceva già Freud, sta tutta nelle pulsioni aggressive e distruttive, insite nell’uomo, altrettanto si può sostenere a proposito della caccia, l’una e l’altra da porre in contesti in grado di fare emergere la nostra ombra più oscura, le nostre parti più nascoste e abiette.
Alla luce di tutto ciò, si impone la necessità di scrutare di più nelle emozioni e nei pensieri dei cacciatori[6], alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della loro passione; si viene così a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione per chiunque abbia a cuore la condizione psichica delle persone, come sostiene di fare il CONI: nei loro comportamenti prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in psicopatia nel piacere dichiarato di essere artefici dell’estrema sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà” , e lo collega a istanze innate o ad una risposta a frustrazioni e umiliazioni; diretto alla ricerca di un piacere generato dal dolore provocato o del senso di potenza personale che deriva dalla capacità di sopraffarre l’altro.[7]
Esiste anche un’altra accezione di sadismo, che è strettamente connessa alla sessualità, nello specifico ad una sua perversione : ed è anche in questa direzione che vanno espandendosi studi sulla personalità dei cacciatori, nel cui inconscio si troverebbe un vaso di Pandora di elementi sessuali repressi. Lo afferma la psicologa clinica Margaret Brooke-Williams secondo cui il sentimento di potenza che l’attività venatoria comporta è in grado di offrire temporaneo sollievo al disagio esperito dai cacciatori. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Alle spalle, una tradizione corposa, dal momento che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) sosteneva che il sadismo tipico della caccia rappresenta le energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese[8]. La caccia, come la guerra, dà forma a pulsioni aggressive, a cui vengono dati significati di comodo, crea dipendenza e desiderio di ripetizione; si va ad uccidere spinti da aspetti della propria personalità, ma poi è lei a modificare i cacciatori nella reiterazione degli stessi atti: niente viene sperimentato e vissuto senza che ne restino tracce che ci modificano.
In attesa di ulteriori spunti dalle ricerche in corso, è interessante sottolineare che quello della caccia è un territorio in cui la prevalenza maschile raggiunge percentuali bulgare e in cui l’accesso delle donne è visto con l’evidente fastidio che sempre provoca l’ingresso femminile in aree in cui il machismo è tratto distintivo: non è casuale che il primo convegno internazionale di donne cacciatrici, tenutosi a Riva del Garda lo scorso settembre, sia stato completamente ignorato dai colleghi maschi. Un po’ diversa da quella italiana la situazione nei paesi nordici, dove la presenza femminile nell’universo venatorio è maggiore: ciò quale conseguenza della convinzione che parità significhi adattamento agli standard maschili, standard che, in quei paesi, sono incistati in una cultura, che, per esempio, celebra e ritualizza l’ingresso dei bambini nell’età adulta con il dono del fucile e la partecipazione alla prima battuta: grande uguale cacciatore insomma. Emblematica è la situazione della Norvegia, dove la caccia è sostenuta e praticata dal 70% della popolazione e la presenza femminile si attesta intorno al 30%. Per analogia, si può pensare all’ingresso delle donne nelle forze armate: se ci riferiamo al nostro paese, il Parlamento lo ha autorizzato nel 1999: ad una ventina di anni di distanza, risulta evidente che la chiamata alle armi ha conservato uno scarso appeal, essendo la presenza delle donne nelle Forze Armate ferma intorno al 5%: resta da noi saldamente radicata l’idea che l’impegno militare risponda alla logica di un universo maschile. Ben diversa la situazione nella già nominata Norvegia, in cui invece il servizio militare è obbligatorio per uomini e donne, sempre in funzione del postulato che parità di genere significhi da parte delle donne accoglimento acritico dei punti di vista maschili. Il discorso porta lontano, ma il parallelismo tra caccia e guerra, unificate dal comune uso delle armi, dalla disponibilità ad uccidere, dall’assunzione di una filosofia di vita aggressiva, è innegabile punto di partenza dei necessari approfondimenti.
Di tutto quanto detto nulla importa alle vittime animali della caccia, impotenti a sottrarsi a quell’orgia di violenza di cui devono subire l’inenarrabile dolore, ma deve essere occasione di una rivisitazione della realtà, a fare inizio dalla decostruzione della mistificazione, vale a dire dell’attribuzione di un falso significato, attualmente in atto: se attività sadiche, tese alla sopraffazione, al sangue e alla morte di vittime inermi sono legalizzate e incentivate dalle istituzioni, se vengono definite salutari da organismi internazionali, se sono giudicate utili al miglioramento delle condizioni psichiche e all’implementazione delle relazioni sociali di chi le pratica, beh allora la distinzione tra giusto e ingiusto, lecito ed illecito, civile ed incivile non può che collassare, con tutte le conseguenze del caso. La mistificazione in atto è implicitamente sostenuta in tanti modi: per esempio con la vendita delle armi accanto agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Per non parlare dell’ingresso sciagurato nelle scuole di cacciatori come testimonial della difesa del territorio: quando descrivono se stessi quali amanti della natura e degli esseri viventi che la popolano, godono della legittimazione derivante dall’investimento ufficiale da parte dell’istituzione scolastica. La loro posizione è rafforzata dal legiferare irresponsabile delle istituzioni che sostengono, con inossidabile caparbietà, l’utilità della caccia e ne indeboliscono sempre di più le restrizioni a vantaggio di cacciatori sempre insoddisfatti, che reclamano di poter “concludere” in santa pace la stagione.
Utilità della caccia? Concludere la stagione? Colpevolizzazioni di animali, introdotti dall’uomo, che devastano le culture? “Prelievi” di animali?
Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome, ha detto Rosa Luxembourg: applicato alla caccia, questo compito corrisponde all’imparare un’altra lingua.
[1] Per conoscere i numeri esatti, si consulti il sito www.vittimedellacaccia.org, che possiede archivi dal 2007 e aggiorna costantemente i dati.
[2] “Il suicidio del capriolo”, Giancarlo Ferron; Biblioteca dell’Immagine 2003
[3] “Nessun porco è signorina”, Marcello D’Orta; Mondadori 2008
[4] http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm
[5] Argomento trattato in “Finchè non lo vedrai cadere esangue”, in “In direzione contraria” di Annamaria Manzoni, Sonda2009;
[6] Si veda “Ai cacciatori il posto d’onore” in “Sulla cattiva strada” di Annamaria Manzoni; Sonda 2014
[7] “Nuovo Dizionario di Psicologia”, Umberto Galimberti, Feltrinelli 2018
[8] https://www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to-psychosexual-inadequacy-the-5-phases-of-a-hunters-life-of-sexual-frustration/
Annamaria Manzoni
Progetto Vivere Vegan Onlus
La pecora nera
Testi di Annamaria Manzoni, psicologa, psicoterapeuta, scrittrice. Per riconoscere e contrastare le ingiustizie contro gli animali, sostenute dal pensiero comune.