di Roberto Caiola, novembre 2003
Pur usandoli spesso per motivi di praticità, i termini “animalista” e “vegan/vegetariano” non mi piacciono.
Il termine ‘animalista’ per me equivale a definire filantropo chi, in una società di cannibali, si rifiutasse di mangiare carne umana e inorridisse per il trattamento riservato agli altri esseri umani. Porre l’accento sulla sua naturale scelta, vuol dire toglierlo da quella dei suoi sanguinari compagni.
Anche dicendo vegan o vegetariano, si sottolinea la naturale diversità delle minoranze, anziché lo stato di sonnambulismo della maggioranza. Il termine specifico va applicato a loro, non a noi.
Quando posso, a chi, incuriosito dal per lui insolito mio amore per gli animali, mi chiede se sono “animalista”, rispondo che e’ lui a essere zoocida (cioè un uccisore di animali – direttamente o per mano di un’ignoto sicario; per estensione, nemico degli animali); e a chi, con quel misto di stupore e sufficienza che tutti conosciamo, mi chiede, come di fronte a un marziano, se sono vegan, rispondo che preferisco definire lui necrofago (cioè mangiatore di cadaveri, con estensione sottintesa alla morte sotto le candide vesti di una mozzarella e simili).
Entrambi i termini sono abbastanza brutti e sgradevoli da poter essere applicati alle pratiche dei nostri amici che non riusciamo a scuotere dallo stato di trance indotto dall’abitudine, nonostante le nostre grida di richiamo.
E qui ha termine questa dissertazione filologica.