La moda si attiva per diventare sempre più cruelty free. Lo stiamo vedendo attraverso i (piccoli) passi in questa direzione da parte dei grandi marchi ma anche con la crescita di brand dichiaramente animal free. Ne scrive per noi Francesca Decandia.
Molti nomi importanti della moda ormai hanno preso consapevolezza dell’accresciuta sensibilità verso le sofferenze degli animali e si stanno muovendo per venire incontro a un’esigenza etica sentita da sempre più persone. Questi brand hanno a capo imprenditori che conoscono bene il loro settore. Essi dimostrano di sapere fare bene dei conti che tanti ancora non riescono a fare, presi come sono dall’immediato bisogno di accumulare fatturato.
Essi sono imprenditori che sanno puntare sul futuro, su ciò che ancora si vede in maniera appena accennata. Sanno anche a volte fare scelte etiche che apparentemente vanno contro il proprio interesse, sia nel rispetto dell’ambiente che delle altre specie con cui lo dividiamo.
Save the Duck: sempre più animalista
La linea Save the Duck di piumini senza piuma d’oca festeggia i suoi primi 10 anni di animal free. La fondatrice di questa linea, Marina Salamon, ha dimostrato un’intelligenza imprenditoriale in più settori e ha voluto un’impronta etica per la sua creatura. Adesso l’azienda è stata acquistata da Progressio, la quale afferma che il logo rappresenta un “universo valoriale”: animal free, materie prima dalla plastica riciclata delle bottigile, prima azienda fashion italiana a ricevere la certificazione B Corporation per l’alto impegno sociale e ambientale.
Dolce&Gabbana: fur-free dal 2022
Anche Domenico Dolce e Stefano Gabbana, icone del mondo della moda Made in Italy, simbolo del nostro Paese in quanto ad arte e creatività, hanno riconosciuto che il mondo delle pellicce è crudele e non merita di rappresentare la moda del nostro paese. L’azienda ha deciso, in linea con molte altre e con i progressi sollecitati dal mondo animalista, (e anche perché in Italia dal 1° Gennaio di quest’anno gli allevamenti da pelliccia sono definitivamente vietati), di non utilizzare più le pellicce animali nelle proprie collezioni. I tempi cambiano e chi sa vedere lontano anche.
Armani: un altro passo verso la fine delle crudeltà
L’annuncio di Giorgio Armani, altra grande icona della moda Made in Italy, di rinunciare per la collezione invernale 2022-2023 ai filati d’angora per creare i suoi capi, è indubbiamente una scelta che dimostra lungimiranza e coraggio imprenditoriale. I filati d’angora sono stati alla base delle sue precedenti collezioni di cappotti, giacche e cardigan e non sarà semplice per lui proporre cose alla stessa altezza, considerando che la lana d’angora è un filato che ha caratteristiche uniche e difficilmente riproducibili.
Perché dunque Armani ha fatto una tale scelta?
La lana d’angora viene ottenuta dalla lavorazione del pelo del coniglio d’angora, una varietà proveniente dalla Turchia, caratterizzata da un vello molto lungo e dalla notevole morbidezza.
Sono lontani i tempi in cui Luisa Spagnoli, colei che introdusse la lana d’angora nella moda italiana, dal 1920 otteneva la sua materia prima pettinando un gran numero conigli tramite l’impiego di molte pettinatrici. Considerando che anche questa pratica apparentemente “soft” non sottraeva comunque i conigli dall’allevamento e dallo sfruttamento.
Oggi la lana d’angora viene prodotta in un modo che permette di contenere i costi del personale: i conigli vengono legati ad assi di legno e il pelo viene strappato, lasciandoli così agonizzanti. Principale produttore la Cina, ma anche in Occidente i metodi di produzione non sono diversi.
La moda e la sua importanza nella società
Sappiamo quanto la moda influenzi profondamente la cultura contemporanea. Nella società della performance l’apparire è fondamentale, oggi uno dei lavori più pagati e più ambiti è quello dell’influencer di moda, una nuova professione in cui un individuo promuove tramite i social un certo vestiario, venendo così finanziato dalle aziende del settore. Una pubblicità realistica e animata. L’ultima frontiera della propaganda commerciale, che fa leva sulla popolarità di una persona e sul suo seguito di followers.
Vestire un brand significa anche trovare un’identità socialmente accettabile e approvata.
A prescindere dal giudizio sul fenomeno, esso esiste da tempo ed è ormai ben consolidato. Per questo le scelte delle grandi marche del settore hanno il potere di muovere il pensiero di molte persone.
La scelta di tutti questi imprenditori del settore dimostra che tramite i loro brand essi vogliono creare cultura e pensiero dando uno sfondo etico alle loro azioni.
La società sta cambiando?
Se persone come Giorgio Armani, o come Dolce e Gabbana e Marina Solomon, da anni sulla cresta del mondo della moda e che fanno le regole del vestire, accolgono nelle loro collezioni temi cruelty free, questo può significare solo che la sensibilità verso le specie non umane sta crescendo ed è un fenomeno che non può più essere ignorato o semplicemente sbeffeggiato nelle fiere di paese.
Essi sono in primis imprenditori, persone che fanno calcoli di costi e benefici e se scelgono questa via vuol dire che sono sicuri che alla fine essa pagherà, vuol dire che al loro occhio allenato da sempre a riconoscere le tendenze del futuro questo sarà un futuro sempre più probabile.
A noi che lavoriamo per promuovere una cultura vegan e antispecista non resta che andare avanti nel lavoro fatto finora, continuando a batterci perché alla fine la società costruita un po’ da tutti e da tutti auspicata sia realmente priva di ogni sfruttamento e sofferenza.
Francesca Decandia
Progetto Vivere Vegan