Immagine di copertina: opera di Maria Tiqwah
La scelta vegan non è semplicemente una scelta alimentare ma comporta una ristrutturazione della propria realtà e delle proprie relazioni, ecco perché a volte può essere difficile intraprendere questo percorso. Proviamo a vederlo insieme.
Qualche giorno fa stavo leggendo un’intervista a Pattrice Jones, scrittrice, educatrice e attivista ecofemminista, co-fondatrice del VINE Sanctuary a Springfield, nel Vermont, un santuario per animali da allevamento gestito da persone LGBTQ (Liberazioni n°43), e sono rimasto molto colpito quando afferma che:
“… Per molte persone il veganismo è una conversione religiosa e non si ricordano come fossero prima di diventare vegane. Dovremmo, al contrario, ricordarci quali fossero i nostri pensieri e le nostre emozioni, per poter parlare a chi si trova ancora in quella posizione.”
In poche righe la Jones mi sembra parlare di cambiamento, di resistenza al cambiamento, e sembra introdurre una certa critica ad alcune esasperazioni del mondo vegano che invece di promuovere la trasformazione delle persone, ne provocano il loro allontanamento.
Ma andiamo per gradi
In quanto psicologo e psicoterapeuta sono enormemente interessato ai processi di cambiamento perché costituiscono il fine ultimo del mio lavoro con i miei pazienti.
Certo, un conto è il caso in cui una persona che si rende conto di avere un problema e “volontariamente” chiede un aiuto per poter modificare e superare i propri problemi, altro è il desiderio di una persona di far comprendere ad un’altro soggetto che il suo “comportamento” è problematico, e che forse sarebbe opportuno, per tutta una serie di motivi, cambiarlo.
Soffermiamoci sul primo caso: solitamente si crede che una persona che si accorge di avere un problema si impegna e fa di tutto per risolverlo, soprattutto quando chiede un aiuto in tal senso; ragion per cui tutto, in maniera naturale, troverà una soluzione.
Se invece la trasformazione o il cambiamento non avvengono è solo per una mancanza di desiderio e di impegno.
Purtroppo nel mio lavoro mi scontro invece spesso con il paradosso per cui, pur richiedendo un aiuto, c’è la possibilità che la persona invece non vada nella direzione che egli/ella stessa desidera, arrivando anche a boicottare il percorso terapeutico con la messa in atto di meccanismi di difesa che possono anche portare all’abbandono delle sedute.
L’idea secondo la quale, consapevoli di un problema, si agisce in maniera da risolverlo e se non lo si fà è solo per mancanza di impegno, è l’idea alla base di molte accuse e critiche che spesso, una parte del mondo vegano, rivolge a non vegan* o vegetarian*, una critica serrata che non tiene conto invece della complessità dei processi di cambiamento in generale, e della messa in pratica della filosofia vegana nello specifico. Ma com’è possibile che di fronte alla ragione alle ingiustizie dello sfruttamento animale si possa tentennare, negare o scappare?
Cerchiamo di capirlo insieme
Ogni persona vive all’interno di un mondo complesso fatto di relazioni, per cui ogni cambiamento non avviene mai sul piano individuale, ma va a riflettersi all’interno della sua rete di relazioni.
Esiste quindi un continuo interscambio individuo-ambiente caratterizzato da processi definiti di retroazione, in pratica si potrebbe dire che ad ogni azione corrisponde una reazione e questa reazione va a scompigliare l’equilibrio della persona e di ciò che lo circonda, persone comprese.
Purtroppo gli effetti di questa perturbazione non sono mai definibili a priori e non si sa che direzioni possano prendere.
Ecco quindi che, di fronte a questa incertezza, nonostante esista un desiderio di cambiamento, si possa tentennare o scappare mettendo in atto dei processi di resistenza al cambiamento.
Cosa ha a che fare tutto questo con la scelta e la filosofia vegana?
Direi che ce lo spiega molto bene Rasmus Rahbek Simonsen nel suo “Manifesto Queer Vegan”, quando ci racconta un evento molto personale della sua vita:
“[…] quando informai i miei genitori che intendevo adottare una dieta vegana, mia madre scoppiò in lacrime e disse: «Come potrò ancora cucinare per te?». Nel mio contesto familiare, il perturbamento non intenzionale provocato dalla mia scelta vegana suonò a dir poco molto straniante (queer): il ruolo di mia madre come nutrice veniva, a suo modo di vedere, messo a repentaglio e ogni pasto che avrei consumato in famiglia avrebbe sfidato abitudini alimentari antropocentriche.
Rifiutando non tanto il cibo animale quanto, peggio ancora, la modalità stessa dello stare insieme che si realizza intorno al desco familiare, sarei diventato un “guastafeste”, «quello che si mette di traverso nella solidarietà organica» che si instaura nell’atto di mangiare.
La mia decisione aveva messo in dubbio la funzione della tavola, a cui Ahmed si riferisce come a un “oggetto parentale”, al luogo della coesione familiare; il cameratismo, la forza affettiva che mi legava al resto della famiglia non poteva più essere data per scontata.
Opponendosi all’uccisione di esseri di altre specie, i vegani possono effettivamente, ed ironicamente, diventare gli «assassini» «della gioia familiare». Niente più pasti “felici” insieme. Non solo: dato che in futuro mia madre non avrebbe più potuto continuare a svolgere lo stesso “lavoro di servizio” femminile per me e per gli altri componenti della famiglia, la mia scelta poneva in discussione anche l’ordine eterocentrato dello spazio domestico”.
Mi fermo qui nel rubare le parole a Simonsen, per mostrare come quella che per molt* vegan* è una “semplice scelta”, se letta in un’ottica di complessità, esprime tutto il suo potere di ristrutturazione della realtà.
La scelta vegana, in questo caso, ha portato ad un perturbamento che ha sconvolto gli equilibri familiari, ha messo in pericolo i rapporti e gli spazi di condivisione, trasformando il vegano nel “guastafeste”.
Ed anche se questo esempio da qualcuno potrebbe essere considerato come una “esagerazione”, questo giudizio vorrebbe dire sminuire il potere simbolico e politico della scelta vegana.
Mettiamo in campo una radicale critica alla realtà
Non si tratta semplicemente di fare la “cosa giusta”, ma di mettere in campo una critica radicale alla realtà, ai rapporti tra persone e tra animali umani ed animali non umani. Non è una scelta alimentare ma la messa in discussione di valori antropocentrici che costituiscono la base del vivere quotidiano.
Ecco che dovremmo quindi fermarci e ricordarci come era la nostra vita prima di effettuare questa scelta, come questa vita è cambiata e quale impatto ha avuto sul nostro modo di vedere e di vivere la quotidianità e le nostre relazioni.
Ecco che riusciremo a rientrare in sintonia con chi quella scelta non riesce ancora a farla o la sta solo meditando, senza riuscire a compiere il primo passo o a proseguire in questo cammino.
Ed ecco che potremo accompagnare queste persone in questa ristrutturazione profonda, che non avverrà mai con le accuse o l’uso di offese quali mangiacadaveri.
Andrea Baffa Scirocco
Progetto Vivere Vegan